Pino Daniele, il dietro le quinte di «Terra mia»

Pino Daniele, il dietro le quinte di «Terra mia»
di Federico Vacalebre
Domenica 23 Dicembre 2018, 13:09
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L'emozione più forte arriva quando «parlano» i nastri di registrazione originali, quando al banco del mixer il produttore Claudio Poggi «apre» le tracce e le fa suonare, isolando uno strumento, magari il basso, visto che in studio c'è anche Piero Montanari, che quello strumento suonò in «Napule è» e «'Na tazzulella e caffè».
La seconda stagione di «33 giri italian masters» chiudera mercoledì, alle 21.15 su Sky Arte, con una puntata dedicata a «Terra mia», l'album d'esordio di Pino Daniele, oggi celebrato, all'epoca decisamente meno.

«Vendette 5.000 copie», ricorda un discografico di lungo e illuminato corso come Stefano Senardi, mentre Poggi, che seguì passo per passo quell'lp scabrosamente rivoluzionario, eppure capace di non rompere il dialogo con la tradizione da cui veniva, mette mani anche nei brani non finiti sullo storico vinile Emi del 1977: ecco «Saglie e scinne», versione prog rock di «Saglie saglie» esaltata dal sax di Enzo Avitabile e dal basso di Rino Zurzolo, «'Na voglia e jastemma'», esclusa dal disco per paura della censura. Entrambe sono già note ai collezionisti perché incluse nel cofanetto «Tracks», ma così, con il cursore che sale per liberare il suono, fanno un'altra impressione, ci riportano quasi a quello straordinario momento creativo: «Tu dicive nun da' retta/ nun ce penza'/ da na mano a tutte cose/ e circa e campa'/ E si me guardo attuorno/ je nun vache niente/ so' na pezza mmane a gente/ che me gira e avota comme vo'/ E na voglia e jastemma'/ ca chianu chianu se ne va/ e cchiù ncazzato me fa».

Arbore, oggi teorico del ritorno alla cartolina napoletana, racconta con gusto del paradosso come quel disco fosse un urlo contro la cartolina napoletana, il folklore degenerato che opprimeva e forse opprime ancora la cultura di una città troppo spesso ridotta a macchietta. Gino Castaldo rievoca i giorni del neapolitan power. Gragnaniello rilegge «Cammina, cammina» come se gli appartenesse, memore, più che dei giorni di scuola elementare divisi con il Nero a Metà, dell'humus verace del centro storico a cui entrambi attinsero a piene mani. Raiz, con la chitarra di Mauro Di Domenico, si misura con il capodopera che dà il titolo all'lp, grido dolente figlio del tempo, ma ancora tristemente attualissimo.

Già, perché gli altri album analizzati dal programma - «...Ma cosa vuoi che sia una canzone» di Vasco Rossi, «Lindbergh» di Ivano Fossati, «Paris milonga» di Paolo Conte, «Latin lover» di Gianna Nannini e «Il mio canto libero» di Lucio Battisti - sono dischi importanti, a volte bellissimi, ma meno epocali, nel senso che al massimo scandiscono musicalmente il tempo che attraversano, mentre «Terra mia» è la voce di dentro di una città che vuole cambiare, che deve cambiare, che non riesce a cambiare.

Il pugno di sabbia che stringe il bambino in copertina (è Salvatore, il fratello di Pino) è quello con cui, sconsolati, restiamo tutti noi nel riascoltare quel grido d'amore e d'allarme, quella denuncia che sembra uscire dalle viscere della città porosa: Napoli-carta sporca all'epoca era un uno sparo nella notte della metropoli postalaurina e democrista, oggi è l'ammissione di impotenza che ci vede accogliere senza uno straccio di progetto turisti e viaggiatori, con l'illusione che ci sia ancora un canto d''e criature a non lasciarci soli nel mare sciamante del popolo dei bed & breakfast nutrito di falsi d'autore da spacciatori di napolitudine d'accatto. «Napule è», cantava o Pinotto, Napule è oggi più che mai in vendita, speculando anche sulle sue canzoni.
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