Gigi D'Alessio a monsignore Viganò: «Ho mangiato tanta polvere»

Gigi D'Alessio si racconta in un libro in cui i musicisti parlano di fede e spettacolo

Gigi D'Alessio al Plebiscito
Gigi D'Alessio al Plebiscito
di Dario E. Viganò
Lunedì 2 Ottobre 2023, 10:00
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Per gentile concessione delle edizioni San Paolo pubblichiamo uno stralcio, un'intervista a Gigi D'Alessio, da «Musica. Note di infinito», di monsignor Dario Edoardo Viganò, che parla con i protagonisti della musica italiana, da Clementino a Roby Facchinetti: di fede, di Dio, di musica, ma non solo. L'autore, esperto di studi religiosi, è stato chiamato da papa Benedetto XVI come direttore del Centro televisivo vaticano nel 2013 e nel 2015 papa Francesco gli ha affidato la riforma dell'intero sistema comunicativo della Santa Sede. Attualmente è vicecancelliere della Pontificia accademia delle Scienze e delle Scienze sociali.

È uno dei protagonisti principali del panorama della musica leggera italiana.

Luigi, per tutti Gigi, D'Alessio nelle sue celebri canzoni canta l'amore e l'importanza della famiglia, descrivendo uno spaccato della società reale, che si rivede nei suoi testi e nelle sue melodie.

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Gigi D'Alessio, siamo accanto a un pianoforte, dietro c'è una batteria. Lei è anzitutto un musicista, non solo un cantautore. È corretto?
«In effetti il pianoforte è stato il mio compagno di viaggio, di vita. In una canzone dico che la mia è stata una vita un po' in bianco e nero, come i tasti del pianoforte. Se lo potessi fare, ci dormirei dentro (ride). Poi ho fatto il Conservatorio e ho avuto dei grandi maestri. Ho conosciuto Merola e Carosone, Carosone, di cui ero un grande fan. Ho avuto l'onore di suonare anche a casa sua. Renato poi era anche una persona molto dolce».

La sua passione è nata in un momento ben preciso?
«All'età di 4 anni. È nata perché mio padre portò una fisarmonica dal Venezuela. Da quel momento è stato il giocattolo con cui, a distanza di più di cinquant'anni, mi diverto ancora a giocare...»

E da lì sono iniziate le sue prime esibizioni alle feste. La gavetta. Ha mangiato tanta polvere?
«Tantissima, tantissima polvere. Ma è quella la vera formazione. È come mettere i pilastri per fare un palazzo. È sbagliato cercare di ottenere tutto e subito. I sacrifici, purtroppo, bisogna farli».

Il primo vero concerto se lo ricorda?
«Certo. È stato in un piccolo teatro a Secondigliano, si chiamava Arcobaleno. Solo lì mi sono reso conto che stava succedendo qualcosa, quando ho visto i bagarini che vendevano i biglietti per il mio spettacolo. Ho capito che stava succedendo qualcosa di grande. Da quel piccolo teatro sono arrivati gli stadi, piazza Plebiscito e poi i teatri più importanti del mondo. Ho girato il mondo sedici volte. Credo di avere avuto troppo, rispetto a quello che ho dato».

Ricevere tanto però non è una colpa.
«Lo so, ma mi ritengo una persona riconoscente. Troppo spesso ci si ricorda dell'arrivo, ma non del punto di partenza».

Nel suo studio, oltre alle foto dei suoi genitori, ci sono le immagini di Padre Pio e di altri Santi. Li definisce: «Tutta la squadra».
«Sono molto credente. Dio è in tutte le mie canzoni e lo cito in moltissime».

La sua musica e le sue canzoni hanno una forza popolare.
«Mogol sostiene che la cultura viene dal popolo. Io scrivevo quello che vedevo, le storie dei quartieri, dei ragazzini e delle ragazzine che a 14 anni già erano in stato di gravidanza. Ho raccontato gli amori, ho raccontato la differenza e il pregiudizio che c'è tra il quartiere alto e il quartiere più popolare, e mi creda: a distanza di trent'anni sono ancora attuali. Lo dico perché vedo adolescenti portati dalle mamme a vedere i concerti e a cantare. Vuol dire che quelle storie sono ancora attuali. Vede, don Dario, io sto bene quando dono, cioè quando do qualcosa. Secondo me l'uomo dovrebbe essere sempre disposto a dare e non propenso solo ad ottenere. Donare il sorriso a qualcuno, regalare un'emozione non costa nulla, però hai donato qualcosa di bello».

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Napoli è nel suo cuore.
«Fa parte di me, non posso staccarmene. Dico sempre che mi sento un italiano di Napoli. E poi la napoletanità è stata sdoganata. Non so se si ricorda, ma venti anni fa in “Non dirgli mai” c'era una frase in napoletano e si parlò quasi di scandalo... Ora è una lingua, è una cultura, un patrimonio, un modo di essere».

I suoi testi sono belli, positivi, la chiamano «Il mattatore». Nelle sue canzoni non c'è spazio per la violenza.
«Fiorello ha detto che con le mie canzoni si può risolvere il problema demografico in Italia perché favoriscono la nascita delle storie d'amore e delle famiglie (ride). Se lancio messaggi di pace? Ho sempre fatto questo nei miei spettacoli. Ho sempre detto di usare la Rete per cose importanti e non farci usare dalla Rete. Tante persone perdono giornate intere sui social network e poi non hanno tempo per stare con i genitori o andare semplicemente a salutare i nonni. Se un “ti amo” lo diciamo guardandoci negli occhi è ancora più bello di un messaggio (lo dice mentre ha un rosario in mano, nda). L'amore viene scambiato per una semplice parola, che però ti fa toccare il cielo con un dito e il giorno dopo ti fa sentire perso per le emozioni che crea. Ti fa stare bene, ti fa soffrire. L'unico amore che non muta, quello vero, è quello per Dio». 

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