Franco Ricciardi superstar al Maradona tra cori gospel e l'urlo della 167

Ospiti della serata Clementino, Andrea Sannino, La Niña e Rocco Hunt

Il concerto di Franco Ricciardi al Maradona
Il concerto di Franco Ricciardi al Maradona
di Federico Vacalebre
Sabato 10 Giugno 2023, 23:53 - Ultimo agg. 11 Giugno, 17:14
5 Minuti di Lettura

C'nzone che più delle altre, pur più famose o più belle, spiega che cosa sta succedendo stanotte allo stadio Diego Armando Maradona: «’O tiempo va e nun se fa’ pava’/ nun te fa senti’, nun te fa ricorda’/ Io resto cca’, chi ce sta, ce sta/ ‘a genta mia me crere e nun voglio cagna’», canta Francesco Liccardo, per tutti Franco Ricciardi, 56 anni, di cui quasi una quarantina passati cantando. 

Iniziò bambino, alle nozze d’argento dei genitori, sulle note di «’O treno d’’ sole» di Mario Merola e «Papa è Natale» di Patrizio. A metà anni Ottanta fu con Gigi D’Alessio, Maria Nazionale e Ciro Ricci l’ariete di sfondamento del contingente neomelodico, di cui divenne l’ala sinistra quando incontrò i 99 Posse, Peppe Lanzetta, Marcello Colasurdo e, soprattutto, incise l’inno antirazzista di «Cuore nero». Da allora l’ex ragazzo di Secondigliano ne ha fatta di strada, diventando riverita icona urban nazionale (Jovanotti è stato il suo primo fan eccellente «extraterritoriale», poi sono venute le collaborazioni/sdoganamenti con Gué Pequeno, Jake La Furia, BoomDaBash) e la vittoria di due David di Donatello grazie alle canzoni scritte per «Song ‘e Napule» e «Ammore e malavita» dei Manetti. Ora è arrivato, vestito alla «Matrix», allo stadio partenopeo (ma il sold out annunciato non c’è, saranno trentamila i presenti, tanti comunque), meta concessa a pochi artisti, soprattutto tra i suoi concittadini.

 

Quella canzone, più di altre, pur più famose e più belle, spiega che cosa sta succedendo stanotte al Diego Armando Maradona, perché Franco è così emozionato, perché il «suo» pubblico è così orgoglioso, oltre che festante: «‘O tiempo va e nun me faccio accatta’/ io so’ sempe chille, chille ‘e tant’anne fa»: sembrerà retorico, soprattutto oggi che Ricciardi vive a Posillipo, ma sembra vero, se non altro verosimile.

Se prendiamo per buona la street credibility di rapper e trapper ben più borghesi come origini, perché non dovremmo credere a Francuccio di via Marche, la strada dov’è nato e cresciuto?

 

Per lui, assieme alla band in cui spicca la chitarra di Diego Leanza, parla l’urlo iniziale di «167» con le sue storie di Bronx newpolitano ante litteram, prima di Saviano e dei suoi cloni. «Madama blu», che in «Gomorra - La serie» finì nella colonna sonora, è subito un cortocircuito temporale, il sound si fa sempre più moderno, ma è la veracità del linguaggio, della voce che sa di tufo e di ruggine, che non vuole essere belcanto, ma canto di vita, voce di dentro, narrazione di pancia. 

Video

Canzoni da matrimonio, canzoni da festa di piazza e canzoni da stadio? Sarà, ma per Franco sono tutte «canzoni e basta», lui non fa «figlie e figliastre», non crede che il pubblico pagante di stasera meriti di più e di meglio di quello che lo va ad applaudire senza pagare, ma conoscendo a memoria i suoi versi. Così tiene insieme «Je», dall’album più recente, e «Prumesse» (rinfrescata in chiave rap da Enzo Dong), «Malammore» e «Te voglio troppo bene» (con Andrea Sannino, che intona anche «Abbracciame», commosso per il coro dei 30.000), «Chiammale» e l’iniezione di mandolini che accompagna il suo racconto familiare e rivisita «Nun me lassa’», «Madre» e «Male». «La mano de dios» cantata in questo stadio fa davvero efetto: «’e guagliune cantavano o’nomme/ e je steve perso into ò peggio d’’suonne», riflette nei versi il campionissimo di tutti i tempi. La Niña è apparizione sensuale in «Tu», «So semp chille» arriva finalmente a dare una chiave di lettura del tutto. Ma al pubblico non serve, le «ricciardiane», giovani e non, vogliono solo da cantare, ballare, sudare, fare gol nello stadio vestito a festa, fare gol a nome di Secondigliano e di tutte le periferie.

Il sound è contemporaneo, internazionale eppure modernamente napulegno, tiene insieme il pop, il rock, l’elettronica, l’azzardo postmelodico. I testi raccontano l’amore, il disagio, le storie di vita. Lo show è colorato, forse non kolossal, ma regge il confronto con le maxiproduzioni che attraverseranno l’estate canora italiana. Su «Vulesse» spuntano D-Ross & Startuffo, su «Magari questa notte» c’è Clementino, per l’apotesi di «Cuore nero» si presenta un coro gospel, che veste di nuovo anche «’A verità», raccontando dall’interno la solitudine, e la fine, di un boss. «Mia cugina» è il ritorno agli esordi, al cotè neomelodico, a quell’ipotesi che resta indigesta a molti di un pop glocal e mai snob, immediato, furbo, verace. La chiusura con «Treno», impreziosito dal flow di Rocco Hunt, ci ricorda che su quei binari di riscatto sono già passate le locomotive guidate da Massimo Ranieri, Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio. Talenti, non paragonabili perché non bisogna mai paragonare i talenti, ma partiti anche loro «dalla parte sbagliata», si fa per dire: della città o della canzone, quella guardata con sospetto dalla società «bene» e dalla cultura «alta». E arrivati a gol preziosissimi. E segnare al Maradona, si sa, non è come segnare in un altro stadio: «Guagliu’ ce l’abbiamo fatta, il nostro sogno è qui», spiega Franchettiello da Secondigliano.

Ps. A qualcuno piacerà partecipare al dibattito sterile sugli assenti: perché non c’è Ivan Granatino? Ma non doveva esserci anche Gigi D’Alessio? Ai leoni da tastiera il dibattito, il popolo dell’ex San Paolo aveva altro da fare. A proposito, lo stadio rilancia: il 21 e il 22 aspetta i Coldplay, il 28 Tiziano Ferro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA