«Roberto De Simone, maestro per sempre», gli auguri di Eugenio Bennato

Gli auguri per i 90 anni e i ricordi dell'allievo dello strappo ai tempi della "Gatta Cenerentola"

Roberto De Simone
Roberto De Simone
Maria Pirrodi Maria Pirro
Venerdì 25 Agosto 2023, 09:28 - Ultimo agg. 16:17
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«Devo tantissimo al maestro Roberto de Simone, che oggi compie 90 anni. Ancora mi considero un suo allievo, e ne sono fiero: mi ha dato una marcia in più. Conservo, però, un intimo rimpianto: aver avuto poche occasioni per dirglielo». Quasi si commuove Eugenio Bennato, ripensando ai suoi 20 anni e a quelle ormai lontane giornate trascorse con l'etnomusicologo.

Da quanto tempo non lo vede?
«Da decenni, dopo una frequentazione quotidiana. Ma resto fedele ai suoi insegnamenti».

Il più prezioso?
«Mi fece notare che la melodia di ogni linea di strumento deve essere bella di per sé, quando si scrive una partitura anche complessa. Ho seguito sempre il suo suggerimento».

Ricorda il primo incontro?
«A Napoli, in metropolitana, 1966-67: il maestro salì a bordo a piazza Amedeo e si ricordò di avermi già incontrato con i miei fratelli, Edoardo e Giorgio, bimbi prodigio in una trasmissione tv con la sua direzione musicale. Chiese cosa stessi facendo: allora ero ragazzo, una matricola all'università, ma avevo già fondato un gruppo, quindi mi invitò ad andare a casa sua, a Cavalleggeri.

E, da quel giorno, tutte le sere, sedeva al pianoforte e comunicava ai miei amici e a me segreti straordinari sulla cultura partenopea, oltre che sulla tecnica della composizione».

Così nacque la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
«Carlo D'Angiò e io gli proponemmo il nome, che studiammo una sera ai Campi Flegrei. Lui, da erudito, replicò che aveva pensato di chiamarlo Gruppo Velardiniello: rappresentava la tradizione, ma era aperto alla innovazione. Tant'è che cominciò anche a suonare la tammorra, una trasgressione rispetto alla sua formazione accademica. Intanto, teneva per sé pezzi bellissimi, e noi lo incoraggiammo a incidere un lp, "Io Narciso io", come cantautore».

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In vista dei concerti, le prove potevano durare anche dieci ore.
«Sì, perché non si limitavano alla esecuzione dei brani: si parlava della storia di Napoli e di tanti altri argomenti, e si andava tutti in una modesta pizzeria a sfamarci, così continuava un'amicizia giovanile nonostante la differenza d'età. E poi, il maestro era meticoloso in vista del debutto o nella realizzazione di un nuovo disco».

Altri tempi.
«Così distanti da quelli di oggi, dal fascino inimitabile. Allora, nello studio di registrazione Phonotype dei fratelli Esposito, a Mezzocannone, si faceva tutto in diretta e non si poteva sbagliare neanche una nota: memorabile fu l'esecuzione di "Il guarracino". Roberto al tamburello, io al mandoloncello, Carlo D'Angiò voce solista, Peppe Barra, Patrizio Trampetti e Fausta Vetere ai cori».

I momenti più belli, lontano dal palco.
«Lo accompagnai a Posillipo, a casa di Eduardo de Filippo: quella mattinata due monumenti della cultura napoletana parlarono della possibilità di una collaborazione per una "Cantata dei pastori". Ma stentavano ad aprirsi uno con l'altro, e convennero che sarebbe stato necessario del tempo per fare qualcosa insieme».

Non se ne fece nulla.
«Lo intuii senza ombra di dubbio già quella mattina...»

Poi ci fu la separazione.
«Quando abbandonai la Nccp:  cominciava a starmi un po' stretta quella affiliazione».

Come glielo comunicò?
«Ci fu momento preciso, quando gli dissi che non mi andava di partecipare alla "Gatta Cenerentola" che ho ammirato moltissimo ma mai amato: rappresentava a mio parere una frenata nell'energia primitiva della musica. Diventava un discorso da salotto teatrale, lontano dall'irruenza di quell'esperienza. Tutto io non lo vivevo, però, in maniera conflittuale, e penso neanche lui».

I vostri percorsi non si sono più incrociati?
«Con Musica Nova, quando realizzai le "Villanelle popolaresche del 500" per la voce di Teresa de Sio: portai il disco con una dedica al maestro, in segno di riconoscenza».

Tutta la sua generazione continua a chiamarlo maestro.
«È la vetta dell'arte del Novecento napoletano, anche se è stato completamente isolato».

Rimproveri?
«Gli rimprovero di avermi ignorato in questi anni come suo allievo. Ma non ho rimpianti: allora non mi azzardavo a scrivere musica, ma avevo l'ansia di fare cose nuove, come quel "Canto dello Scugnizzo" che mi hanno invitato a riproporre in occasione dei prossimi 80 anni delle Quattro Giornate. Ho rubato l'anima al maestro, in modo positivo».

Possibile superarlo?
«No, lui ha smisurata conoscenza e sapienza, e porta con sé l'esperienza unica del dopoguerra. Non posso fare confronti, anche se ho avuto guizzi: ho pensato che avrebbe potuto invidiarmi "Canzone per Iuzzella"».

Lei ha anche scritto una canzone, citando De Simone.
«Il "Popolo di tammurriata": conoscendolo, non credo gli sia piaciuta».

Già, fa così: «A tradizione è morta/ Ma a me che me ne mporta/ Va nfreva De Simone/ si sente sta canzone».
«Al centro il limite ideologico tipico degli etnomusicologi, cioè quello di essere gelosi del proprio percorso di ricerca. Lui lo fece con "La tradizione in Campania", una raccolta in sette vinili di registrazioni sul campo, dichiarandone l'atto di morte appena completata l'opera; mentre noi facevamo vivere quei canti, andando verso il futuro. Uno su tutti: "Brigante se more", diventato un inno persino in Val di Susa».

Qual è il contributo più importante che ritiene De Simone abbia dato alla cultura italiana?
«Aver eliminato lo stereotipo di una Napoli "pizza e mandolino"».

Gli farà gli auguri, per i suoi 90 anni?
«Non ho neanche il suo numero di telefono: approfitto di questa intervista per esprimergli tutto il mio affetto: da allievo per sempre di un maestro per sempre».

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