Arrigo Sacchi, 75 anni di gloria:
«Ma che rimpianto quello scudetto»

Arrigo Sacchi
Arrigo Sacchi
di Pino Taormina
Giovedì 1 Aprile 2021, 18:18 - Ultimo agg. 3 Aprile, 17:29
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Disse addio al calcio proprio nel febbraio di vent'anni fa. Per stress. Arrigo Sacchi, uno dei tecnici che ha rivoluzionato il calcio mondiale, non solo quello italiano, oggi compie 75 anni. Il Vate di Fusignano lasciò il Milan dopo aver conquistato uno scudetto, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, due Supercoppe europee, una Supercoppa italiana. Ha vinto tutto, se non ha portato in Italia una Coppa del Mondo lo deve agli errori dal dischetto di Roberto Baggio e Franco Baresi nella finale di Pasadena del 1994. In quel caso, avrebbe davvero conquistato qualsiasi cosa. Un profeta che ha incantato e anche adesso incanta ogni volta che parla. Mai banale. Ma con un grande rimpianto. Lo scudetto del 1990. «Rabbia? Tanta, ma quella volta a Bergamo con la monetina di Alemao ci furono cose poco chiare. Poi ho saputo, però sto zitto sennò mi mettono in galera. Diciamo che la politica non fu estranea a quella vicenda», ha detto nel corso degli anni dimostrando che scudetti, coppe dei campioni, intercontinentali, il titolo di maestro, non lo hanno aiutato a mettere da parte quella sconfitta bruciante. 

Ha sempre sfiortato il Napoli nella sua carriera. Il romagnolo di Fusignano, Ray Ban sugli occhi, figlio di un grossista di scarpe. Un maniaco del pallone che stava discretamente sulle scatole, eccome, quasi a tutti. Al Mattino confidò.  «A un certo punto ho persino rischiato di allenarlo il Napoli, mi voleva Maradona, lo sapete? Mi disse, con lei in panchina partiamo 1-0. Non ci fu mai un'autentica trattativa, solo grandi dimostrazioni di affetto nei miei confronti del giocatore più forte al mondo. Ma a quei tempi sarebbe stato più facile per lui venire al Milan». Ha incantato, ma è rimasto incantato. Quando Maradona è scomparso, il 25 novembre, non nascose la sua emozione per la sua morte. «La prima volta che lo incontrai mi stregò: era nel gennaio dell'88 a San Siro, il Milan dominò i primi venti minuti di gioco, poi lui toccò la sua prima palla dell'incontro, fece assist per Careca e ci ritrovammo sotto.

Sconvolse tutte le mie teorie sul calcio. Guardai in panchina Ramaccioni e dissi: Dimmi che non è possibile!».

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La delusione più forte non la sconfitta con il Brasile a Usa '94 ma il campionato 89/90 (anche Van Basten non smette di parlarne). «Ho incontrato Alemao tempo fa: gli scocciava essere ricordato solo per la famosa monetina. Ha ragione: era davvero bravo. Come tanti altri nel Napoli: Francini, De Napoli». Il suo insegnamento resta un dogma per tutti. «Ogni cosa inizia dal cervello. Costringevo i miei giocatori ad addestrare la mente, prima dei piedi. Michelangelo diceva che i quadri si dipingono con il cervello, le mani sono soltanto strumenti». Sempre ossessionato dalla bellezza. «Ma è normale. Pensiamo agli spettatori di San Siro sabato sera: vanno alla partita, vogliono lo spettacolo, il divertimento. Ai miei giocatori dicevo sempre: la gente vi viene a vedere per passare due ore senza pensare ai propri problemi». Ed è per questo che è rimasto incantato prima da Pep Guardiola e poi da Maurizio Sarri. «Ha lasciato il segno nella storia del calcio con il suo Napoli. E lo diceva Nelson Mandela: “Io non perdo mai: o vinco, o imparo”. In un calcio offensivo e generoso come quello di Sarri è sempre così».

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