«Il destino, o forse la fortuna o forse ancora l’amore che ci legava, mi ha consentito di vedere Vincenzino sabato pomeriggio, prima che se ne andasse. Io e Giancarlo accanto, come sempre, fino all’ultimo momento». Bruno Giordano ringrazia ancora il cielo di aver avuto questa possibilità, lui e Oddi come scudieri di Peter Pan, che ci ha lasciati tutti senza parole e senza il suo sorriso. «Lo chiamavamo proprio così, da ragazzino, quando nella Lazio era un leader che non tutti, all’epoca riconoscevano. Il Golden Boy biancoceleste, la classe cristallina al servizio della squadra. Non avete idea di quanto fosse forte D’Amico, il mio fratellino».
Cinquant’anni d’amicizia sincera, di vita condivisa, di gol e di successi, di errori e di sconfitte. «Andavamo con suo papà a sentire la musica in via Gregorio VII…». Eppure Bruno ha la voce forte, rende onore al compagno senza versare una lacrima come avrebbe voluto il numero 11 dello scudetto e il numero 10 del ritorno in serie A.
CLASSE INCREDIBILE
«Quante ne abbiamo passate insieme, non posso neanche dire che fosse un semplice amico perché ci vedevamo quasi tutti i giorni, proprio come fratelli.
FOLLE E MERAVIGLIOSO
In realtà Vincenzino non sarebbe mai andato neanche al Torino, se fosse dipeso da lui. «Un anno solo, poi scappò. Avrebbe smesso se non lo avesse ripreso la Lazio. Fu messo alle strette e accettò il trasferimento perché quei 300 milioni avrebbero aiutato il club a sopravvivere. Lui era nato biancoceleste, era nato per giocare solo nella Lazio, di cui è stato una bandiera che non potrà mai essere ammainata, nemmeno dopo la morte. Rappresentava un calcio di altri tempi, senza malizia, fatto d’amore e di generosità. Credetemi: lui non ha solo vinto uno scudetto, i suoi successi sono stati la salvezza in serie B, la promozione immediata, la conquista della fascia di capitano. A quei tempi, erano trionfi, soprattutto per noi che dopo il ’74 abbiamo iniziato a soffrire. Teneva tutto in piedi Maestrelli, nemmeno il più bravo allenatore del mondo dal punto di vista tecnico avrebbe conquistato quel titolo e mantenuto la squadra unita in mezzo alle liti e alle divisioni. Tommaso era unico e irripetibile, come ogni elemento di quella squadra». Un ricordo improvviso. «Eravamo a Caserta, prima della partita Vincenzino era furibondo perché Maestrelli gli aveva sequestrato lo stipendio e lui sosteneva che non sarebbe andato avanti per troppo tempo con 300mila lire. Ad un certo punto finì il caffè e si mise a palleggiare con la tazzina, che non è mai caduta. Che talento, che uomo folle e meraviglioso».
Una domenica, racconta Bruno Giordano, accadde qualcosa di incredibile durante Lazio-Napoli, la partita del rientro del centravanti dopo uno stop di cinque mesi. «Agnolin fischiò un rigore, decisi di andare sul dischetto perché avevo bisogno di fare un gol. Ma sei sicuro? Te la senti? D’Amico mi venne sotto per calciare, io sbagliai ma l’arbitro fece ripetere l’esecuzione: Vincenzo mi disse ancora lascia fare a me… invece tirai un’altra volta e sbagliai di nuovo. Agnolin disse che il rigore andava ripetuto e allora si presentò il mio capitano: niente da fare, terza esecuzione fallita e naturalmente su quel ricordo siamo andati avanti per anni a prenderci in giro: l’errore è stato il tuo, perché era l’ultimo tiro, quello decisivo. Quanto coraggio aveva: una volta giocò con sette punti sul sopracciglio, che Ziaco gli mise durante l’intervallo. A quei tempi bisognava essere eroi per continuare e lui lo era».
D’Amico accolse Bruno nella Lazio subito dopo lo scudetto. «Lui a 21 anni sembrava un veterano, accompagnò l’ingresso in prima squadra di Manfredonia, di Agostinelli, di Di Chiara e del sottoscritto facendoci sentire meno soli. Un giorno portò tutta la squadra a casa mia, a Trastevere, con un pullman parcheggiato in mezzo alla strada per passare un giornata insieme. Io avevo la gamba rotta e i suoi sorrisi mi aiutarono anche quella volta». Non più da oggi in poi. «Questo lo pensate voi, Vincenzino vive dentro di me».