Baresi e l'omaggio al popolo azzurro:
«Diego era un campione immenso»

Baresi e l'omaggio al popolo azzurro: «Diego era un campione immenso»
di Marco Ciriello
Lunedì 18 Ottobre 2021, 07:00
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«Baresi sapeva leggere lo spazio, le partite, i movimenti degli avversari. Leggeva il gioco meglio di chiunque». Da diversi anni, Werner Herzog, regista tedesco, in ogni intervista con i giornali italiani ricorda il suo calciatore preferito, poi divenuto anche suo amico.

Come chiunque ami il calcio, riconosce a Franco Baresi il dominio del campo, che è cosa diversa dall'esserci dentro, come il dominio del gioco che pure aveva e che veniva di conseguenza è una azione diversa dal giocare. Baresi è «la persona più veloce nel vedere il dettaglio luminoso (Pound)». Ora ci racconta con l'aiuto di Federico Tavola la vida del campione in Libero di sognare (Feltrinelli). E sembra una storia di Ermanno Olmi, con i dolori, gli spaesamenti, le sconfitte, le paure, e poi il riscatto, le vittorie, la gloria, seppure con una vena di malinconia sempre, che poi sta nello sguardo di Baresi.

Un dannunziano, uno da conquista, arrembaggio, ma con la pacatezza degli introversi, un dominatore silenzioso, che si rende conto delle sue imprese solo adesso, a cominciare da quella fisica, nel 1994, quando si infortunò al menisco alla seconda partita del mondiale di calcio giocando contro la Norvegia , si operò, e giocò straordinariamente la finale, meno di un mese dopo, contro il Brasile, fermando per centoventi minuti Bebeto e Romario, ma tutti ricordano solo il rigore sbagliato, alto sopra la traversa, «ho voluto cambiare angolo di tiro all'ultimo momento, ho visto che Taffarel si muoveva così ho alzato la palla. Sbagliato, non si cambia mai», tanto che Fernando Acitelli gran poeta del pallone lo lirizza includendo il tiro sbagliato nella perfezione del suo linguaggio calcistico: Fin-de-siècle/ è l'errore dal dischetto: le lacrime/ gli abbracci, lo stile tuo perfetto.

Fine di secolo sicuramente per il ruolo di Baresi, il suo stare in campo, il suo gioco che parte da Nereo Rocco, passa per Nils Liedholm e arriva ad Arrigo Sacchi, come cominciare con i versi di Guido Gozzano per arrivare a quelli di Gregory Corso.

Intorno a quell'errore di Pasadena, Baresi, costruisce il racconto della sua vita, calcistica e non, scioglie quel nodo, scende nelle pagine con le sue impressioni, i suoi ricordi, senza quelle moine tipiche dei libri dei calciatori, che cercano di farci stare tutto e tutti, lui, no, continua ad essere secco ed efficace come in campo, pochi aggettivi, poche righe e solo per chi merita, e ovviamente tra i meritevoli c'è Diego Maradona, il San Paolo che applaude e la partita del suo Milan che vince lo scudetto battendo il Napoli.

«Diego era un campione immenso. Oltre che per la classe e la tecnica, mi impressionò per la forza con cui subiva duri colpi senza mai lamentarsi. Un vero leader per i compagni». E poi su Napoli: «Fu una splendida vittoria, applaudita anche dal pubblico napoletano, dopo nove anni ero di nuovo campione d'Italia, questa volta da capitano».

Baresi è l'ultima espressione di un calcio lontano, partito dalle campagne e arrivato a dominare il mondo vincerà tutto quello che c'è da vincere, e sempre con lo stesso club, il Milan con un fratello, Beppe, all'Inter, la madre persa a tredici anni e il padre a diciassette, le canzoni di Lucio Battisti come colonna sonora, e un principio di tristezza sempre dentro all'anima.

Oggi Baresi è pacificato, rispetto ai suoi errori di uomo e calciatore, e si gode l'ammirazione del mondo, l'essere uno dei grandi della storia del pallone, con la forza delle lacrime esibite e l'impresa d'essere andato oltre se stesso tanto da divenire il mito di Werner Herzog. 

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