La citazione era d'obbligo, e allora Dries Mertens ha fatto un dribbling in più, quello dello sperpero, quello del gioco vero, quello dei bambini infiniti che vanno oltre se stessi, come c'ha insegnato Maradona. Nella sua sera, tra statue, lacrime, e ritorno al passato, Mertens c'ha messo il carico, con una finta sentimentale, da torero. Non ha messo a sedere solo Patric, impedendo ad Acerbi e Luis Felipe di fermarlo, ma ha creato un collegamento palla-tempo-movimento con Diego. E poi è andato oltre, ne ha segnato un altro, facendosi sponda emotiva, scavalcando la tristezza, sostituendo gli occhi lucidi con le grida di gioia. S'è fatto musicante, e poi pensiero errante, vagando e toccando il pallone col tacco, appoggiando il pallone come i rivoluzionari: senza un domani, perché contava solo il presente, e lui nel presente era il viceré del campo, perché il re era diventato statua e nome dello stadio. Mertens s'è mosso sul ciglio estetico, dribblando e mettendo il pallone in porta come meglio non si poteva, quando tutti pensavano che fosse un pensionante, e che dopo l'infortunio ad Osimhen il Napoli avesse un problema in attacco, è tornato, da subentrante, da punta improvvisata e stropicciata, segnando due gol proprio alla squadra dell'uomo che l'ha inventato punta, Maurizio Sarri, impietrito dalla classe del belga, distrutto dal palleggio del Napoli con Fabian Ruiz e Lobotka che hanno creato la migliore linea centrale vista quest'anno con Spalletti, poi magari non succede mai più, ma se risuccede son guai per chiunque, poi ci saranno altre soluzioni, ma nell'improvvisazione, con le pezze e gli acciacchi è venuta fuori una linea pazzesca, con un cervello che ha funzionato come una macchina catalana.
Il resto, poi, l'ha fatto Mertens, che sembrava avesse una missione, che dovesse rendere giustizia alle celebrazioni maradoniane, e allora si è inventato come spesso gli è accaduto due gol maradoniani.