BigMama: «Mi ha salvato il rap, ora salvo qualcuno io»

Marianna Mammone si racconta: violentana e bullizzata, poi la reazione

BigMama
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di Federico Vacalebre
Martedì 14 Maggio 2024, 08:00 - Ultimo agg. 15 Maggio, 07:40
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Il titolo, Cento occhi, è lo stesso del suo ultimo singolo, contenuto nell’album post-festivaliero «Sangue». Lanciando il brano, Marianna Mammone, 24 anni, da San Michele al Serino (Av), per i fan BigMama, aveva spiegato: «L’ho scritto perché avevo raggiunto il mio limite di sopportazione».

Dietro il libro (presentato ieri alla Feltrinelli di Napoli, domani sarà alle 18 alla Mondadori di Avellino) c’è, anche, la presa di coscienza «che le mie parole possono fare bene a chi le ascolta. Ancora non lo voglio accettare, ma in tante mi fermano per dirmi che si sono sentite raccontate dai miei versi, che dopo avermi ascoltata hanno fatto pace con se stesse e la loro storia».

La storia di Marianna è una storia di abusi, di provincia gretta e maschilista, di torture psicologiche. Bodyshaming, si dice oggi: una bambina che non si sentiva amata dalla mamma, che cercava nel cibo la consolazione. Una bambina che si sentiva bella, ma per i presunti amici, anche per i parenti, era piuttosto la «chiattona», la «palla», quella che doveva smettere di mangiare, quella da non invitare alle feste, quella che poteva al massimo farti un servizietto a scuola sotto il banco. 

«Da bambina ero convinta che fosse normale per quelli “come me” subire la cattiveria altrui» è il tuo incipit spietato, Marianna.

Eppure dedichi il libro a tua madre, ed ai tuoi tre fratelli, anche quel Giandomenico che ti pestava da bambina, sfogando così le sue frustrazioni ed un ambiente a dir poco claustrofobico. Vabbè che «la rabbia non ti basta», come hai cantato a Sanremo, ma quando hai imparato a perdonare?

«Non perdono, non c’è nessuno da perdonare. Provo a capire, piuttosto: mia madre, mio padre, mio nonno, mio fratello, i miei insegnanti, i miei compagni, il mio paese non erano in grado di comprendere quello che stavano facendo. Hanno sbagliato, certo, ma... anche io sbaglio, e dagli errori bisogna rialzarsi ammettendoli e (ri)trovando la propria strada». Ma perché ringraziarli, comunque? 

«Perché nel libro non sono entrati i momenti felici e le coccole che pure la mia famiglia mi ha dato, l’ambiente naturale che il mio paese mi ha dato... Perché vedere tutto nero o tutto bianco è una semplificazione che non fa bene a nessuno, tantomeno nel mondo fluido a cui aspiriamo. E, poi, i ringraziamenti vanno oltre: c’è la mia compagna Ludovica, c’è il mio ematologo».

Lui ti ha salvato la vita, dici. 
«Letteralmente».

Anzi: un gin tonic ti ha salvato la vita? 
«Proprio così. Era il 2020 quando il dottore mi diagnosticò un linfoma di Hodgkin: mi ero preoccupata del fatto che quando bevevo mi faceva male il collo. Dodici cicli di chemioterapia dopo sono ancora qui, a raccontare anche questa».

Oltre all’ematologo ed al gin tonic, però, ti ha salvato la musica. 
«Quando ho scoperto il tumore avevo già iniziato a fare rap, avevo già trovato la strada della mia vita, avevo finalmente capito che non contava il giudizio che gli altri avevano di me, ma il giudizio che io avevo di me. E, grazie all’hip hop, era abbastanza alto».

E oggi? Che giudizio hai di te? 
«Direi sempre migliore, anche se sono ancora all’inizio del mio tragitto artistico ed umano. Sanremo, l’Onu, il concertone del Primo maggio mi hanno regalato platee importanti e consapevolezza».

Allora: oltre all’ematologo, al gin tonic, al rap, ti ha salvato Maurizio Pisciottu. 
«È vero. Salmo è arrivato un attimo prima del baratro. Mio fratello ascoltava a palla la sua “Death Usb” e lo accompagnai a una serata rap al “Giffoni film festival”. Ensi mi piacque, Clementino mi colpì, ma Salmo... fu un colpo di fulmine, l’incarnazione della ribellione».

«È lì che lo sguardo perso di Marianna si è trasformato in quello duro di BigMama», si legge nel libro. 
«Sì, poco dopo sarebbe arrivata “Charlotte”, la mia prima canzone, e, con le prime migliaia di ammiratori, la “chiattona” avrebbe iniziato il percorso verso il riscatto».

«Ho capito che a differenza del pop, in cui si parlava di amore, con il rap potevi lamentarti, arrabbiarti, ribellarti, denunciare. Salmo era incazzato, stanco, un giovane vecchio, non si lasciava piegare dalla società, a come lo descrivevano, a come lo volevano. Lui era Salmo e basta. Il fatto di potersi sfogare con la musica è stata un’illuminazione per me. Ho capito così di poter parlare del mio disagio all’interno delle canzoni», scrivi. Quel disagio era profondo. 
«A 9 anni, ero in quarta elementare, mia madre chiese alla pediatra quando sarei diventata signorina. Lei, per capirlo, mi infilò una mano nelle mutande. Sono stata abusata davanti agli occhi di mia madre, che non se n’è accorta. A 14 anni sono stata violentata nel cesso di una festa da un fotografo. Ero vergine». 

Continuo con i tuoi salvatori: all’ematologo, al gin tonic, al rap, a Salmo, devi dire grazie a Milano, al fatto di essere andata a vivere da sola per studiare all’università. 
«Sì, ho trovato persone che mi assomigliavano, ho fatto i conti con la mia bisessualità... Ma mi ha salvato anche San Michele al Serino: senza quelle violenze non avrei trovato la mia voce, la mia voglia di riscatto, di rivincita».

«La rabbia non ti basta»: dopo Sanremo, l’Onu, il Primo maggio, il Salone del libro, dove vuoi arrivare? 
«Al cuore della musica, passando per tutto quello che il mondo mi offrirà: un film, un talent show, un programma televisivo...». 

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