Dall'Angiporto al Chiatamone i volti, le voci e le ombre delle nostre case di carta

Per tutti noi che siamo nati e cresciuti a «Il Mattino» questo indirizzo - via Chiatamone 65 - non è soltanto uno scrigno della memoria, ma il luogo di un destino irripetibile, denso di vita

I volti, le voci e le ombre del Mattino dall'Angiporto al Chiatamone
I volti, le voci e le ombre del Mattino dall'Angiporto al Chiatamone
di Vittorio Del Tufo
Domenica 5 Maggio 2024, 10:00
6 Minuti di Lettura

«Era l'istante più felice della mia vita, e non me ne rendevo conto»
(Orhan Pamuk, Il museo dell'innocenza) 

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Via Chiatamone 65, la nostra casa di carta sfiorata dal mare. Per tutti noi che siamo nati e cresciuti a «Il Mattino» questo indirizzo - via Chiatamone 65 - non è soltanto uno scrigno della memoria, ma il luogo di un destino irripetibile, denso di vita. Una vita che non entra negli scatoloni e che resterà a impregnare questo luogo in eterno. Eravamo ragazzi, e il ventre della rotativa ci faceva pensare alla colonna vertebrale di un immenso animale preistorico. Le dita annerite dall'inchiostro fresco, l'odore del giornale appena sfornato che ci inebriava ogni sera. Ci sono ricordi che resteranno scolpiti per sempre nella nostra memoria, ma anche nella memoria collettiva della città.

Correva l'anno 1962 quando «Il Mattino» cambiò casa, trasferendosi dal mitico Angiporto Galleria alla nuova e più attrezzata sede di via Chiatamone, nella strada dove un tempo sorgevano ville da urlo e hotel leggendari, come quel «Vittoria» dove secondo Dumas uno sceicco algerino pretendeva di far tagliare la testa a un eunuco che aveva lasciato sfuggire una donna del suo harem. Correva l'anno 1962 e a guidare la città era un commissario prefettizio, Ferdinando D'Aiuto, la lunga stagione laurina si era appena conclusa; il capitano del Napoli, allora allenato da Petisso Pesaola, era Pierluigi Ronzon e ad aggiudicarsi il Festival di Napoli, nel mese di luglio, sarebbe stata la coppia Sergio Bruni-Gloria Christian con la canzone Marechiaro Marechiaro. Il trasloco fu faticoso, complesso: particolarmente complicato fu installare la tipografia e, aggirando le difficoltà derivanti dall'acqua del mare a pochi metri, le rotative al pianterreno.

Fu un gran casino, ma ne valse la pena.

Oggi via Chiatamone 65 è un luogo della memoria: vi sorgerà un grande albergo, 150 camere di lusso. Passato, presente e futuro continuano a fondersi e a confondersi, come le ombre di chi quel palazzo lo ha abitato ed amato, trascorrendovi una vita intera. Attenzione però: la storia di via Chiatamone 65 - una vera e propria epopea, recentemente ricostruita da Gigi Di Fiore in un delizioso libretto pubblicato con l'editore Langella - comincia molti decenni prima del trasferimento de «Il Mattino» dalla storica sede dell'Angiporto. Comincia con una sala teatrale, il Diorama, dove teloni con vedute di paesi lontani si succedevano vorticosamente formando un giro di vedute panoramiche. Lì, dove un giorno sarebbero arrivate le rotative, avvenenti danzatrici agitavano con grazia ampi veli su cui si proiettavano bellissimi disegni a colori e miracolosi (per l'epoca) giochi di luce. Poi, squillo di trombe e rullo di tamburi, arrivò il Gran Circo del Varietà, con la sua grande sala con decorazioni in bianco e oro, poltrone in velluto rosso, tavolini da caffè. La zona più interna, sulla quale si apriva una fila di palchi, dava accesso a salette da gioco e di lettura, a un ristorante e a un separé. Sul palcoscenico, le cantanti e i comici più quotati, le più acclamate compagnie di balletti e operette. Armand'Ary mandò in visibilio tutta Napoli quando per la prima volta cantò A frangesa, scritta per lei da Mario Costa. Io sòngo bona ma so''ntussecosa. E poi Eugénie Fougère, Emilia Persico, Amelia Faraone, Amina Vargas, Nicola Maldacea, Diego Giannini e quell'Elvira Donnarumma soprannominata 'a capinera napulitana dopo aver portato al successo la canzone dal titolo «Capinera». Al Gran Circo del Varietà Di Giacomo e Costa, Gambardella e Califano, Di Capua e Capurro lanciarono le loro nuove canzoni. In quegli anni, come ricorda Franco Barbagallo nel libro «Napoli, Belle Époque», Napoli conserva parecchi tratti che la fanno sembrare a Parigi. Sono gli anni del café chantant e proliferano caffé e locali in cui si esibiscono le chanteuses, che a Napoli diventano sciantose. Nel 1890 era stato inaugurato il Salone Margherita e in quegli anni anche il caffè Gambrinus verrà rinnovato profondamente da architetti e artisti. Il nome del teatro cambiò più volte, poi il locale fu trasformato nella «Galleria Vittoria», con negozi di classe, fra cui una elegante e rinomata sala da thè, negozi di abbigliamento, di oggettistica e di fiori. L'edificio passò all'Automobil Club e dall'Automobil Club lo rilevò infine «Il Mattino». 

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Quando «Il Mattino» si trasferì di fronte al tunnel della Vittoria, il 4 maggio 1962, era un giornale in forte crescita, la più autorevole voce del Sud, ma soprattutto - ieri come oggi - la casa di tutti i napoletani. Ai tempi del trasferimento in via Chiatamone il direttore (da 12 anni) era Giovanni Ansaldo. Gli anni di Ansaldo a «Il Mattino» furono gli stessi raccontati magistralmente da Ermanno Rea in «Mistero napoletano»: passioni e destini incrociati all'ombra di una città soffocata dagli anni del laurismo e prigioniera di un mondo ancora ferocemente diviso in blocchi. Ansaldo era «il giornalista di Napoli»: abitava, come il geniale e stravagante matematico Renato Caccioppoli, nel Palazzo Cellamare di Chiaia che aveva ospitato Goethe. Tale era la sua popolarità che tra i lettori si diffuse questo epigramma:

Un signor monumentale/con il cranio liscio e tondo/parla sempre col plurale/nell'articolo di fondo. 

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Prima c'erano stati i mitici anni dell'Angiporto, come un tempo si chiamava l'attuale piazzetta Matilde Serao, o vico Rotto San Carlo: la prima sede de «Il Mattino», una sorta di ventre materno per numerose generazioni di giornalisti e intellettuali napoletani: non solo il luogo dove si fabbricavano i giornali, ma un incubatore di storie, sogni, passioni, destini incrociati. Popolata da una straordinaria fauna umana, la Fleet Street napoletana conviveva con una Broadway un po' scalcagnata: la Galleria Umberto era a un passo, con le sue luci e le sue ombre, con le sue case discografiche specializzate in melodie napoletane, i suoi tre cinema (Colosseo, Santa Brigida e Umberto) e le agenzie di collocamento per attori, cantanti e ballerine. «Il Mattino» è nato qui, esattamente 132 anni fa, il 16 marzo 1892, al civico 7 del palazzo dell'Angiporto: vicini di casa, una sartoria e un piccolo albergo a ore. È nato in soli quaranta giorni, quando Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, sposati dal 1885 e compagni di lavoro nel «Corriere di Napoli» del ricchissimo banchiere livornese Matteo Schilizzi, dopo aver chiuso con don Matteo investirono la liquidazione di 86mila lire per dar vita alla nuova testata. Quattro rampe di scale, un ballatoio traballante e la porta a vetri col gallo. Nei sotterranei la rotativa Marinoni, che ansimava nella notte di via Toledo; al primo piano la redazione che ben presto cominciò a essere frequentata da letterati e poeti, che divennero topi di redazione al pari dei giornalisti. Due nomi su tutti: Giosuè Carducci e Gabriele D'Annunzio, con il quale Scarfoglio anni prima si era sfidato a duello, prima di diventarne amico. Il Poeta, per la cronaca, fu ferito al collo al terzo assalto.

La storia de Il Mattino resterà indissolubilmente legata al carisma dei due fondatori, la coppia Scarfoglio-Serao. Si conobbero, si beccarono a lungo, infine convolarono a nozze. Lanciandosi pochi anni dopo nell'impresa della vita. Fin dal primo editoriale “Tartarin” Scarfoglio mise in chiaro che al vertice degli impegni del nuovo giornale vi sarebbe stata la difesa dei diritti del Sud: grazie al Mattino la voce di Napoli doveva «spandersi per tutta l'Italia». 

(1/continua

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