Fela Kuti, Daniele Vicari a Napoli: «Il Marley d’Africa? Afrobeat e rivolta»

Daniele Vicari presenta domani a Napoli il docufilm sul «black president»

Fela Kuti in concerto
Fela Kuti in concerto
di Enzo Gentile
Martedì 26 Marzo 2024, 07:09
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È stato un personaggio immenso, musicalmente, culturalmente, politicamente: per il suo paese, la Nigeria, per l’Africa, e non solo. Fela Anikulapo Kuti (1938-1997) ha attraversato più vite, sul palco e tra la sua gente: quello che per molti è stato The Black President, per altri è quantomeno il lucido, geniale inventore di uno stile musicale magnetico come l’afro-beat. Daniele Vicari lo racconta in un intrigante docufilm, «Fela - Il mio dio vivente», che, dopo le anteprime da festival, sarà presentato dal regista domani a Napoli, alle 20.30 al cinema Vittoria. Il documentario è un viaggio appassionante e viscerale che racconta l’uomo con il sax miscelando con sensibilità il privato (poligamo, arrivò a sposare 27 donne, molte delle quali erano sue coriste o danzatrici, divorziando poi da tutte dichiarando che nessun uomo può vantare dei diritti sulla vagina di una donna) e il pubblico, nel rispetto della sua dimensione visionaria, rituale, profetica.

Vicari, il suo film è in lizza per il David, nella categoria documentaristica, eppure diverso dai soliti ritratti musicali. 
«Il percorso che mi ha portato a Fela è stato particolare, anomalo: è avvenuto grazie all’incontro fortuito, alla festa del cinema di Roma del 2019, con Renata Di Leone e Giovanni Capalbo, che mi hanno parlato dei filmati che avevano recuperato, opera di Michele Avantario che gli era stato vicino a Lagos e lo aveva seguito, diventandone amico fidato, fino a convincerlo a fare un film insieme.

Purtroppo sono scomparsi troppo presto entrambi per mandare avanti il progetto. Effettivamente c’erano tantissime cose, in formati e di qualità scadente, ma in grado di essere al centro di un’opera che non è una biografia, non è un concerto, non è nemmeno la spettacolarizzazione di un artista così speciale, ma la testimonianza di chi ha avuto il privilegio di essergli stato accanto, senza filtri e senza secondi fini, se non quello di condividere un pezzo di strada».

Dentro c’è il Fela musicista e quello politico. 
«La storia di Kuti, della sua comunità, delle violenze e delle sofferenze che il regime nigeriano gli ha riservato per impedire che la sua popolarità diventasse un’arma politica contro il suo potere, è un misto di fratellanza, spiritualità, appartenenza, capace di sfociare in un modo di fare musica che era il senso della vita stessa. Fu arrestato decine di volte, torturato, ma non si è mai arreso e il suo messaggio rimarrà a lungo: ai funerali parteciparono due milioni di persone. Quel tipo di modello, così lontano da noi, ingiudicabile e inspiegabile, ci offre comunque un insegnamento, mostrando come in un'altra parte del mondo, in una diversa stagione, la libertà del corpo e dell’espressione quotidiana collettiva sono state una risposta. Che va agli antipodi delle nostre realtà e società di oggi, dove tutti sono ripiegati su se stessi e vincono le passioni tristi. Viviamo in un mondo asettico, ma ci sono aspetti che possono insegnarci ancora molto».

Quanto conosceva e amava la musica di Fela Kuti prima di immergersi in questo viaggio? 
«Io sono arrivato a Roma proprio in quel 1984 del concerto di Fela, organizzato da Michele, di cui riportiamo uno spezzone. Quella musica aveva una carica politica forte, girava nei centri sociali, contava su una forte adesione ideologica: lui, come Bob Marley o Peter Tosh, era nei miei ascolti, anche se io vengo dal rock e il primo disco che ho comprato fu dei Deep Purple, “In rock”. Mai avrei pensato di potermi occupare in profondità di afrobeat. E comunque questo film mi ha dato l’opportunità di capire, di vedere, di entrare in una dimensione da cui qui restiamo estranei».

Con le musiche originali composte e suonate da Teho Teardo, resta sempre Fela al centro del film, anche per la componente religiosa fortissima che si sprigiona nelle varie scene. 
«Le riprese erano vietate all’interno di Kalakuta, una cittadella e allo stesso modo un tempio di culto, ma nei suoi diari Michele ne aveva scritto molto, perché era rimasto colpitissimo dalle tradizioni yoruba: Kuti era un babalawo, una sorta di sacerdote, componente che aggiungeva complessità alla persona. Le parti relative all'animismo sono per forza di cose centellinate, ma presenti nel suo percorso, fino alla morte. E parte integrante del saluto collettivo seguito da una moltitudine che spiega bene quale fosse il suo legame con la sua gente». 

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