Teatro San Carlo di Napoli: «La Gioconda» conquista tutti

Una prestazione magistrale di Anna Netrebko guida al trionfo

Anna Netrebko
Anna Netrebko
di Stefano Valanzuolo
Giovedì 11 Aprile 2024, 07:00 - Ultimo agg. 12 Aprile, 07:42
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Nell’Italia degli anni che precedettero gli ultimi geniali sussulti verdiani, «La Gioconda» di Ponchielli si impose come titolo di successo, affermando il gusto di un’epoca in rapida evoluzione, non solo musicalmente. Riuscì a sommuovere gli schemi dall'interno, innovando con giudizio, assecondando tanto i desideri dei melomani romantici quanto le pulsioni intellettuali di certa borghesia. Il corto circuito tra il letterato con vocazioni radical chic (Arrigo Boito) e l’abile melodista figlio del melodramma italiano (Ponchielli, appunto) generò un’opera densissima sul piano cantabile, talora sorprendente nelle soluzioni formali; godibile, al di là della trama tortuosa, senza essere scontata. 

Il successo caloroso che ieri sera ha salutato il nuovo spettacolo prodotto dal San Carlo (insieme al Liceu di Barcellona) si spiega con la presenza di un cast importante, in primo luogo, illuminato dalle performance di Anna Netrebko e Ludovic Tézier. Ma il meccanismo teatrale che muove l’opera è ben più complesso e compiuto di una passerella di voci e sul consenso finale incidono la direzione musicale pertinente di Pinchas Steinberg – un direttore vero, finalmente – e la regia di Romain Gilbert, priva di guizzi speciali (e talvolta un po’statica) ma almeno rispettosa del testo e della musica.

Netrebko, protagonista nel ruolo del titolo (e già festeggiata domenica scorsa per i suoi primi trent’anni di carriera) offre al pubblico una prova da incorniciare e a sé stessa un’altra serata di gloria.

La scrittura impervia non le procura problemi, tanta è la disinvoltura ostentata nel passare da acuti limpidi e abbacinanti ai toni gravi, suadenti pure dove inspessiti. Oltre la gamma ampia dei timbri, si apprezza la caratterizzazione del personaggio, tra esplosioni passionali e repentini cambi di ritmo e di atmosfera che riflettono la scrittura musicale. Accanto alla sua, svetta l’esibizione maiuscola di Ludovic Tézier che alla figura complessa di Barnaba (prototipo di eroi boitiani successivi) conferisce spessore e nobiltà. Il vigore truce del declamato qui appare come addolcito, gli esiti resi seducenti dalla minuziosa cura del tratto cantabile. La tenuta scenica, infine, imponente.

Jonas Kaufmann, acclamato regolarmente, sfodera mezzi toni accattivanti e un fraseggio cesellato con classe. Il suo Enzo conquista i favori della sala in quanto musicalmente levigato, ma il ruolo richiederebbe altra enfasi emotiva e altra potenza. La Laura di Eve Maud Hubeaux è puntuale nell’assieme, raffinata a momenti, solida nel confronto sbalzato con la primadonna nel duetto del secondo atto. La Cieca di Kseniia Nikolaieva è da applausi, un po’ meno l’Alvise di Alexander Köpeczi, talora forzato.

Dal podio, Steinberg delinea la vicenda con compostezza granitica, smussando qualche picco di modo da non cedere a improbabili tentazioni protoveriste né adagiarsi su un registro romantico troppo esplorato. Il racconto non assume una tinta connotante, forse, ma la strumentazione sapiente è gratificata in più punti da un apporto orchestrale ben sopra la media delle ultime apparizioni, mentre il senso teatrale dei concertati sfarzosi e delle parentesi di danza, tributo a un grand-opéra senza eccessi, viene sottolineato dall’equilibrio tra buca e scena. 

 

Spettacolo lineare, al riparo da voli pindarici di ogni sorta. Gilbert opta per una Venezia ovviamente riconoscibile – le scene di Etienne Pluss fanno da richiamo e a volte da didascalia - ma non oleografica. E se è vero che al regista di «Gioconda» spetta il compito delicato di gestire spazi e masse, lui ci riesce ordinatamente e senza sprechi di fantasia, mettendo a frutto l’eleganza dei costumi (Christian Lacroix), il giusto gioco di luci (Valerio Tiberi) e, nella celebre «Danza delle ore», anche un’idea coreografica percepibile (Vincent Chaillet). Niente letture intimiste, che sarebbero fuori luogo, ma una messinscena corrispondente alle aspirazioni in grande del titolo. Come a dire, regia adeguata che diventa da standing ovation al confronto con gli ultimi «Maometto II», «Turandot» e «Norma».

«La Gioconda» - che al San Carlo mancava da 47 anni – è spettacolone con margini di gloria ovunque: il successo finale, allora, premia legittimamente anche il balletto, il coro e le voci bianche, ossia le masse artistiche del teatro qui impegnate al completo - fatto significativo – con i loro maestri: nell’ordine, Clotilde Vayer, Fabrizio Cassi e Stefania Rinaldi. 

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