Don Peppe Diana, intervista alla sorella Marisa: «Mio fratello faro del nostro popolo»

«Dobbiamo continuare a coltivare la speranza, nel segno del martirio riservato a mio fratello»

Il capo dello Stato Sergio Mattarella sull'altare di don Peppe Diana
Il capo dello Stato Sergio Mattarella sull'altare di don Peppe Diana
Leandro Del Gaudiodi Leandro Del Gaudio
Sabato 16 Marzo 2024, 08:00 - Ultimo agg. 17 Marzo, 08:52
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In questi trenta anni è cresciuta con due sentimenti uguali e contrari: il dolore per la perdita del fratello, ma anche la speranza di vedere realizzata la sua missione, quella di un popolo in cammino lontano dalla barbarie criminale. Aveva 28 anni Marisa Diana, in quel 19 marzo del 1994, quando il fratello, che per tutti era don Peppe Diana, venne massacrato all'interno della sua chiesa a Casal di Principe. Trenta anni dopo è ancora lì, nel comune di origine della sua famiglia, fa l'insegnante e accudisce la sua famiglia. A Il Mattino, Marisa Diana racconta gli anni più bui, quelli immediatamente successivi l'omicidio del fratello quando, al dolore per l'esecuzione si aggiungeva il dolore nel constatare l'azione della macchina del fango.

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Marisa Diana, chi era suo fratello?
«Un sacerdote e un uomo che annunciava i valori e la verità della fede nella sua semplicità.

E che si sforzava di metterli in pratica ogni giorno, restando vicino alla sua gente, alla sua comunità. Aveva l'oratorio sempre aperto, sempre vivo, sempre al centro di iniziative che rendessero concreto il senso di essere cittadini e cristiani in una comunità: leggere il Vangelo, ma anche suonare la chitarra, fare doposcuola ai più piccoli, nel valore del Cristianesimo: tutto ciò era mio fratello, don Peppino Diana».

Una missione che lo ha inevitabilmente esposto contro la camorra.
«Quando eravamo a cena, la sera, a casa nostra, mio fratello appariva preoccupato per i tanti giovani che finivano nelle trame della camorra».

Perché ci sono voluti anni per arrivare a una verità condivisa sulla figura di don Peppe Diana?
«Abbiamo dovuto lottare contro la macchina del fango, da parte di chi aveva interesse a far emegere una figura non reale di mio fratello. Una strategia trasversale (c'era anche qualcuno che agiva dall'interno della Chiesa) finalizzata a mettere in cattiva luce l'operato di don Peppe Diana. Contro queste macchinazioni abbiamo reagito, facendo leva su fatti concreti e smontando di volta in volta anche le falsità che approdavano su alcuni giornali e in alcuni circuiti mediatici».

Oggi, a distanza di trenta anni, chi vorrebbe ringraziare per questa operazione verità che ha consentito di sgomberare il campo da tante distorsioni?
«Ovviamente gli uomini delle istituzioni, a partire dalla magistratura e dalle forze dell'ordine, che hanno lavorato per far emergere una verità granitica: mio fratello venne ucciso dalla camorra, nella sua chiesa, per l'azione quotidiana svolta contro la camorra. Dalle manifestazioni annunciate con il testo di un “popolo in cammino” alle attività quotidiane che rappresentavano un presidio concreto contro la camorra, mio fratello rappresentava un problema naturale per il radicamento criminale sul nostro territorio».

Tornando al processo, qual è stata la chiave di volta, a sua giudizio?
«C'è un uomo che intendo ringraziare più di tutti. Parlo di Augusto Di Meo, uno dei testi chiave di questa storia. Era un amico fraterno di don Peppe e per me è sempre stato un fratello. Un uomo che avrebbe potuto tacere, ritirarsi nel silenzio, ma che ha invece offerto una ricostruzione precisa di quanto avvenne all'interno della parrocchia San Nicola di Bari a Casal di Principe, mettendo a repentaglio la vita sua e della famiglia».

Lei ricorda la sua testimonianza?
«Non si è mai tirato indietro. Era accanto a mio fratello quando entrò il killer. Augusto festeggiava perché era padre, mio fratello perché era il suo onamastico. Un momento felice interrotto dal killer che entrò in chiesa e disse “chi è Peppe?”. Anche in quel caso, mio fratello non si è sottratto, ma con la dignità di chi non ha nulla da nascondere disse “eccomi, sono io, sono qua”, per poi essere sacrificato a una sorta di martirio».

Come è cambiata in trenta anni la sua cittadina?
«Lo scenario è migliorato, alcuni clan sono stati smantellati, ma una certa mentalità deve cambiare ancora, anzi, deve essere completamente sradicata. La battaglia ora è anche di carattere culturale: è una questione di valori condivisi che devono coinvolgere sempre più persone. È l'idea del popolo in cammino o del manifesto per amore del mio popolo, che rappresentano la nostra stella polare anche a trent'anni dall'orrore toccato a mio fratello».

Cresciuta nel dolore, forte dell'entusiasmo per aver ottenuto dei risultati, qual è la sua principale soddisfazione?
«Quando ero ragazzina, i miei genitori non ci facevano uscire di casa, oggi non c'è più il coprifuoco, ma il territorio è decisamente migliorato. Dobbiamo continuare a coltivare la speranza, nel segno del martirio riservato a mio fratello». 

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