«Ho l'Hiv, mi suicido», ma uccide
la madre che voleva salvarlo

«Ho l'Hiv, mi suicido», ma uccide la madre che voleva salvarlo
di ​Mary Liguori
Sabato 15 Dicembre 2018, 08:15 - Ultimo agg. 13:38
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«Sono sieropositivo, tanto vale che mi suicido. Che campo a fare? Morirò lo stesso». Prima di abbandonarsi alla violenza più folle, prima di uccidere la madre fracassandole la faccia contro il muro del soggiorno, ha detto che si sarebbe ammazzato. Perché Marco Mattiello aveva scoperto di essere malato e quel fardello, il peso di dover convivere con l’Hiv, di dover affrontare terapie e cure che richiedono forza e costanza, lo ha schiacciato. Gli ha affollato la mente di nuovi incubi, che si sono sommati a paure e ossessioni che si portava dietro fin da bambino, e lo hanno convinto che la cosa migliore da fare era togliersi la vita. Ma sua madre, Filomena Sorvillo, ancora una volta, come faceva da sempre, ha tentato di riportarlo alla ragione. Di schiacciare quei pensieri che, anno dopo anno, avevano trasformato suo figlio in un mostro che alzava le mani per chiedere soldi, per esigere attenzioni. «Non puoi. Non devi suicidarti». In lacrime, Filomena, la maestra in pensione, la ex ragazza madre che tra mille difficoltà ha allevato da sola Marco, riconosciuto da un padre che gli diede il cognome e nient’altro, è morta non solo aveva perdonato il figlio, riaccogliendolo in casa dopo il divieto di avvicinamento disposto dal giudice per le innumerevoli precedenti aggressioni, ma anche perché, in un ennesimo gesto d’amore materno, ha impedito al figlio di suicidarsi. Ha cercato di fargli capire che anche se malato, poteva curarsi, andare avanti. Ma nella testa di Marco, quarant’anni, nullafacente, una vita di eccessi, di alcol e di violenza, non c’era posto per la speranza. Quella mente era sovraffollata da pensieri negativi, distruttivi. E quando la madre ha cercato di abbracciarlo, di dirgli che insieme ce l’avrebbero fatta, ha perso il controllo. Prima l’ha presa a schiaffi, poi le ha afferrato la testa e l’ha sbattuta con la faccia contro un muro. Una, due, tre chissà quante volte. Finché il corpo di Filomena non è diventato floscio e pesante come quello di un’enorme bambola di pezza inzuppata d’acqua. A quel punto Marco, che quel peso non riusciva a sostenerlo con una sola mano, l’ha lasciata cadere ed è scappato dalla morsa dei suoi demoni. È corso alla porta. Ha afferrato il cellulare. Ha telefonato allo zio. «Ho fatto un str....». Lo zio gli ha urlato: «Che hai fatto, Marco? Che le hai fatto?». La moglie dell’uomo ha assistito alla chiamata. Le sono bastati pochi secondi per capire che qualcosa di terribile era accaduto alla cognata. Non ha aspettato neanche che il marito riagganciasse e ha chiamato i carabinieri. Li ha mandati in via Filangieri, a Orta di Atella, dove madre e figlio vivevano di nuovo insieme da ottobre. A luglio, dopo l’ennesimo pestaggio, il giudice aveva firmato per Marco il divieto di avvicinarsi alla madre. Ma poi lui, alla madre, era sembrato rinsavire e Filomena gli aveva detto di tornare a casa. La tregua è durata meno di sei settimane e si è rotta nel peggiore dei modi. Quando i carabinieri sono arrivati in via Filangieri Marco era sull’uscio di casa, sporco di sangue, farfugliava col cane che lo fissava impietrito. Dietro di lui, oltre la porta aperta, s’intravedevano le gambe di Filomena. Morta, in un lago di sangue, nel soggiorno di casa. Morta per aver perdonato, per avere spronato suo figlio a sperare, per avere creduto che l’amore può superare la violenza, l’alcolismo anche la malattia, anche un virus terribile come l’Hiv.

Filomena non si sbagliava, l’amore può superare tutto questo e molto altro, ma suo figlio non lo ha mai compreso. Ora è in carcere, a Poggioreale. Sulla casa di via Filangieri, dopo anni di urla, minacce e fracasso di mobili rotti, è calato il più greve dei silenzi. Anche il cagnolino di Marco abbaierà altrove, lo hanno portato via, perché nessuno potrà più badargli.

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