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Lunga vita al Pallagrello, il vitigno riscoperto solo nel 1997

A raccontare la storia del vitigno la giornalista Emanuela Piancastelli

Emanuela Piancastelli
Emanuela Piancastelli
di Emanuele Tirelli
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 26 Febbraio 2023, 10:23
3 Minuti di Lettura

«C'era la necessità di avere finalmente una narrazione reale, con delle fonti storiche e letterarie. Perché, non conoscendo il passato, possiamo avere delle difficoltà nel progettare il futuro». Manuela Piancastelli è giornalista e vignaiola insieme a suo marito Peppe Mancini, figure centrali nella riscoperta di questo vitigno. Così una parte compiuta della sua lunga e approfondita ricerca è finita nel libro «Pallagrello. Il vino del vento, del fiume e del re» (Valtrend, 2023). È uno strumento di lavoro, una guida preziosa per la conoscenza storica del territorio, con una scrittura fluida che restituisce una lettura calda e limpida.

Che questo vitigno sia legato ai Borbone è innegabile e, sottolinea l'autrice, «si deve a loro la costruzione di un'identità territoriale. Avergli dato dignità attraverso il consumo a corte accanto ai vini francesi, insieme alla scelta di inserirlo nella Vigna del Ventaglio, è un segno di grande rispetto nei confronti di questo prodotto. I Borbone lavoravano sulle eccellenze del territorio, così quello del Pallagrello è un progetto all'interno di una visione più ampia». Ma vitigno e vino esistevano già da prima. Piancastelli ricorda, infatti, che «la prima testimonianza del Pallagrello, con questo nome, risale agli inizi del Seicento come grande vino di Terra di Lavoro. Da molti storici è considerata un'uva aminea, quindi veniva dalla Grecia. Si è diffusa nella zona alifana e ha seguito il fiume Volturno sia per la produzione che per la commercializzazione. Un ruolo importante si deve all'abbazia di San Vincenzo al Volturno. I benedettini hanno avuto una funzione rilevante nella viticoltura. Inoltre, la basilica aveva proprietà immense ed era influente anche nel commercio. Il 10 ottobre dell'881 i monaci furono vittime di una strage. All'interno delle cucine dove era stata preparata la loro ultima cena, gli archeologi hanno ritrovato oltre 1400 vinaccioli dell'uva da pasto consumata dai monaci. Considerando il periodo, è plausibile che una di quelle uve fosse proprio Pallagrello: spero che prima o poi qualcuno si occupi dell'analisi del dna per procedere alla comparazione».
Se le prime tracce letterarie risalgano all'inizio del Seicento, vuol dire che questo vitigno era famoso con quel nome già da prima.

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Nonostante la storia lunga e robusta, oggi il suo valore non è accompagnato da altrettanta fama. «Ha avuto oltre 100 anni di completa dimenticanza. La sua riscoperta è recente e la prima bottiglia risale al 1997. Ma questa dimenticanza non è dovuta tanto alla diffusione della fillossera quanto ai cambiamenti storici e culturali. Fino alla fine dell'Ottocento, Piedimonte è stato il centro produttivo di questo vino. La sua trasformazione in centro industriale ha determinato la scomparsa di una serie di produzioni locali. Non dimentichiamo che il passaggio dai Borbone ai Savoia si è concretizzato anche in una minore attenzione alle piccole produzioni del Sud. A tutto questo si aggiungono i grandi movimenti migratori, che hanno contribuito all'abbandono delle campagne e all'uscita del Pallagrello dai riflettori della storia per tornare in una dimensione familiare».

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In passato questo vino è stato citato in numerosi dizionari geografici. «Inglesi, francesi, tedeschi», continua Piancastelli. «Era molto consumato a Napoli. E Napoli era frequentata da mercanti e militari che inviavano all'estero i prodotti locali». Superando l'oblio iniziato con l'unità d'Italia e la riscoperta di pochi anni fa, c'è un futuro da costruire. «È una delle grandi uve della Campania, ma la sua diffusione sarà possibile solo se non ci sarà una nuova dimenticanza; se il Pallagrello riuscirà a non essere più moda ma a diventare storia».
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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