Lucia Buccheri e le Parole del cibo in Campania dalla fresella agli ziti

Il saggio ricostruisce l'origine, la storia e la presenza in letteratura di cento parole note

Lucia Buccheri e le Parole del cibo in Campania dalla fresella agli ziti
Lucia Buccheri e le Parole del cibo in Campania dalla fresella agli ziti
di Ugo Cundari
Sabato 1 Luglio 2023, 14:00
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Arriva l'estate e nella Napoli del Cinquecento si diffonde la moda della fresella. Un paio di secoli e qualcuno ci vede altro da una semplice forma di pane rotonda o bislunga di consistenza dura di solito ammorbidita con l'acqua. Nel Settecento Niccolò Capasso nella sua traduzione in napoletano di L'Iliade per indicare la virilità di un uomo usa l'espressione «tuosto cchiu dde na fresella». A suggerire «fresella» come sinonimo della vulva, per la comune forma, è un intellettuale dell'Ottocento, autore di un celebre vocabolario napoletano-toscano, come Raffaele D'Ambra, che si spinge a usare come termine analogo dell'organo genitale femminile anche la pastiera.

Legato alle forme femminili, ma con un significato più casto, è la «zita», oggi «zito», un formato di pasta usato nel Settecento solo nei giorni precedenti le nozze o in occasione del banchetto del matrimonio perché in napoletano «promessa sposa» o «giovane sposa» si diceva «zita», termine poi diventato maschile di recente. Il passaggio è attestato in «Sabato, domenica e lunedì», la commedia di Eduardo de Filippo del 1959, in cui nelle didascalie del copione dove si descrive la preparazione del ragù, per indicare la pasta utilizzata, si usa sia l'espressione «maccheroni di zita» che «ziti». «È all'enorme successo della commedia che si deve la consacrazione del formato di pasta e della sua denominazione sulla scena nazionale. Al suo recente successo internazionale ha contribuito la serie televisiva «The Sopranos» in cui diverse scene sono ambientate nel ristorante Nuovo Vesuvio dove gli ziti appaiono di frequente» scrive la filologa Lucia Buccheri in Parole del cibo in Campania (Cesati, pagine 352, euro 29), saggio che ricostruisce l'origine, la storia e la presenza in letteratura di cento parole note, meno note o scomparse del lessico della gastronomia campana dal Trecento ai giorni nostri iniziando da «abbuoto» (involtino di interiora di agnello condito con aromi, arrostito o lessato) passando per babà, casatiello, scapece, pastiera, tortano, infine arrivando a «zoffritto», come si chiamava nel Settecento il soffritto inteso come «spezzatino di interiora di maiale (più raramente di agnello), condito con pomodoro, peperoni e patate». 

All'epoca è talmente di moda che una zona di Napoli, porta Capuana, è occupata esclusivamente da locande che preparano questo piatto. La diffusione del «zoffritto» è dimostrata anche da una commedia di Gennaro D'Avino, messa in scena nei primi anni dell'Ottocento, con protagonista Annella la tavernara di Porta Capuana, la cui locanda è famosa appunto per la preparazione dello spezzatino.

Per molti decenni a gennaio a Casoria si è tenuta la festa del soffritto. Nel Cinquecento si possono mangiare il polmone di porco cotto sulle croste di pane e il «tarantiello», ventresca di tonno. Le salumerie vendono un salume di sangue, il «sammucchio», formato da vescica o budello, generalmente di maiale, ripieno di sangue cotto e aromatizzato. Le frattaglie come centopelle («capezzale»), intestini («padeate»), coratelle («costigliole»), milze («mevoze») e fegati («fecati») sono vendute esclusivamente dai «merciaiuole». Tra i dolci, i «ginetti» possono essere semplici o fini, con i secondi che si distinguono dai primi per un numero maggiore di uova. Sono biscotti di piccole dimensioni ricoperti di glassa di zucchero, in vendita fin dalla prima metà dell'Ottocento. Per gli stomaci più forti ci sono le «ossa dei morti», dolcetti farciti di conserva di cedro o di cocozzata aromatizzata alla cannella. 

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