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Maria Grazia Calandrone, il racconto intimo di un'Italia fa

La fame d'amore materno che dannava Pasolini qui diventa ricerca e recupero di sommerse armonie

Maria Grazia Calandrone
Maria Grazia Calandrone
di Andrea Manzi
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 19 Dicembre 2022, 07:00 - Ultimo agg. : 18:50
4 Minuti di Lettura

«Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire/ Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile». Sono gli ultimi versi di Supplica a mia madre di Pasolini. Il poeta confessava il suo «impegno immenso» (proprio così, «impegno»!) di un amore vissuto come schiavitù alta e irrimediabile per poter sentire la vita fuori da ogni ragione. Ribaltamento: una bimba di 9 mesi, abbandonata nel 1965 nel parco di Villa Borghese, poche ore prima che la madre e il padre biologico dessero volontariamente l'addio alla loro vita scivolando sereni nelle acque tombali del Tevere lei, Lucia, contadina, 29 anni; lui, Giuseppe, muratore maturo e stanco per lo sfacelo di un'esistenza orfana «dell'amore immortale dei mortali» investiga, invece, dopo 57 anni, dentro la sua storia e recupera la dignità del gesto materno dell'andarsene dal tempo ma per lasciare il suo corpo vivo dentro il tempo ostile.

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La bimba di allora è Maria Grazia Calandrone di oggi, voce tra le più autorevoli della poesia contemporanea, che nel suo libro Dove non mi hai portata - Mia madre, un caso di cronaca (Einaudi, pagine 247, 19,50 euro) recupera «il filo di incandescenza» che illumina la vita della mamma suicida per amore. Il gesto estremo della giovane Lucia, rischiarato dal faro del dantesco «intelletto d'amore», è una rinuncia profetica affinché la vita della bimba non diventasse destino, plumbea orfanezza anonima allora diffusa. 

La fame d'amore materno che dannava Pasolini, tanto da rinchiuderlo in una dipendenza insostenibile, qui diventa ricerca e recupero di sommerse armonie lungo l'orlo di un fiume, tra frammenti di verità scorte nella spirale della violenza sociale di un'Italietta priva di ogni pietà. Un paese che, per gli ultimi come Lucia, somministrava afflizioni e dolori, svuotando le loro vite e trasformando donne e uomini nei Vinti della contemporaneità.

Maria Grazia era nata fuori dal matrimonio, perché sua madre aveva intravisto la luce oltre la cecità del tempo, «ingroviglio di vergogna, omertà e colpa» che, poi, l'aveva sepolta. Donna semplice e risoluta aveva, cioè, colto il lampo di un'esistenza possibile oltre la cortina della sua notte, soprattutto dopo il matrimonio impostole con Luigi. Era un uomo-zolla impotente, Luigi, e l'aveva portata ad abitare nella campagna molisana, depositandola come un oggetto inutile in una «buca» senz'acqua e corrente elettrica. Non l'amava, la picchiava a sangue, spingendola nei campi con il forcone impugnato per i maiali. Vigeva la civiltà dei maschi caparbi e impetuosi, protetti da un'arcaica cultura di genere, alla quale Lucia si ribella dopo anni di fame e maltrattamenti, tentando di costruire, con il suo compagno e sua figlia, nella lontanissima Milano industriale, un mondo familiare nuovo sul quale, però, la società cala la mannaia della proibizione e del reato, negando loro il sorriso, il pane e il respiro. 

La lettera, con la quale Lucia confessa di aver lasciato la bimba nel parco di Villa Borghese, non è indirizzata alle autorità, ma al quotidiano «l'Unità», in prima linea nelle battaglie per la difesa dei diritti.

Lucia e Giuseppe colgono in quella comunità coesa e combattiva dei lettori comunisti un'area di riscatto e di lotta contro le ingiustizie e il degrado normativo del tempo. Coltivano, così, i coniugi «maledetti», la sofferta e terminale speranza che Maria Grazia possa essere adottata da una «famiglia sensibile e studiata» che leggeva quel giornale, cosa che poi avviene. Non solo non è portata nella morte (iconico il titolo del libro), ma la bimba è sospinta verso la laica speranza della fede nel progresso e nella giustizia.

La ricerca retrospettiva della madre che non aveva il cervello molle della preda il volto, le cose, l'agire, i luoghi, il pianificato gesto finale è condotta dall'autrice con la sagacia investigativa del miglior giornalismo investigativo: attimi, circostanze, testimonianze, documenti, foto sono allineati in una trama che recupera un mondo lontano e ancora brontolante nel piano basso delle coscienze.

Maria Grazia Caladrone, un anno fa, in Splendi come vita, esplorava il tormentato rapporto con la madre adottiva; in questo romanzo diventa madre della sua indifesa e inflessibile mamma («Adesso vengo a riprenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano»). Capovolgimento compiuto nell'area densa della poesia, che alimenta la prosa e restituisce la a-temporalità dei sentimenti al senso di una storia nuova. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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