Esordì sessantasettenne Maria Orsini Natale con un romanzo diventato subito un best seller, Francesca e Nunziata. In pochi anni diverse ristampe, trentacinquemila copie vendute e sei traduzioni. Nel 2001 Lina Wertmüller ne trasse un film per la televisione con Sophia Loren, Giancarlo Giannini, Claudia Gerini e Raoul Bova. Nel 2011, pochi mesi dopo la morte dell’autrice a ottantadue anni nella sua città natale di Torre Annunziata, il romanzo scomparve dalle librerie. Sembrava destinato all’oblio, a quella pena comminata spesso ai capolavori della letteratura per oscuri meccanismi editoriali. Due anni fa ci fu quasi una rivolta popolare in una libreria di Torre Annunziata per invocare una riedizione del romanzo che finalmente torna disponibile il 4 giugno per Sellerio (pagine 488, euro 16).
La narrazione inizia in costiera amalfitana, con un vecchio pastaio che decide di trasferire l’attività a Torre Annunziata in un nuovo e più ampio opificio. Dopo la sua morte, a prendere il comando è la nipote Francesca capace nel miracolo di trasformare il pastificio in una vera e propria impresa industriale. Ha nove figli ma nessuno vuole continuare nell’attività. A farlo sarà la figlia adottiva, Nunziata, che, tra vicissitudini e rischi di fallimento, si dimostrerà ancora più brava della matrigna nel far rendere «l’arte bianca».
Lo sfondo storico è ampio. Prima c’è lo sbarco di Garibaldi, la caduta dei Borbone, il brigantaggio e la nascita dello Stato italiano, poi le due guerre mondiali con nel mezzo l’avanzata del fascismo fino al 1940, quando «sul mondo grava caligine» e le macchine, «nemiche di sempre», stanno per sostituire gli operai, la serialità l’artigianalità. Il romanzo è una grande epopea familiare con protagoniste tutte al femminile, due donne fiere e decise, ingegnose e coraggiose, smaniose di fare bene e del bene. Gli uomini a loro legate vivono come una maledizione il ruolo subalterno. Al di là della grandezza dei personaggi, dotati tutti, anche i comprimari, di una intensità straordinaria (le donne di servizio abituate a stare nell’ombra, a essere fantasmi dietro le quinte, hanno un «corpo senza sesso») e spesso di nomi propri strabilianti come nonna Trofimena e le zie Papele e Tenza, a colpire, rileggendo il romanzo a distanza di anni, è la limpidezza dello stile, vicino a quello di Domenico Rea, e la Orsini vinse il premio dedicato allo scrittore di Nofi nell’anno dell’esordio.
Uno stile che con il tempo non è invecchiato. Di solito i romanzi dotati di una scrittura forte, tarata su espressioni e immagini in cui sono frequenti parole e costruzioni desuete, a volte forbite, fanno presa sul lettore la prima volta. Poi, con il passare del tempo, rivelano la patina di antichità in principio non registrata. Con il romanzo della Orsini questa sensazione non c’è, persiste il fascino di una scrittura rivelatoria, potente, magnifica e perturbante, tesa nel continuo sforzo di racchiudere in poche righe l’alto e il basso, l’oscuro e il luminoso, già dall’incipit: «Francesca era nata il sei di gennaio del milleottocentoquarantanove. Era nata su una di quelle alture della costa amalfitana dove la terra precipita e dirupa in un cielo capovolto, che nelle notti serene le luci delle lampare fanno stellato».