Come a volte succede, cominciamo dalla fine. «La morte della sceneggiata possiede anche una data precisa: domenica 4 novembre 1984, ovvero la data in cui il giornalista Clodomiro Tarsia scrive l'articolo sul quotidiano "Il Mattino" intitolato "Sceneggiata, ultimo atto", e sottotitolato "Ormai solo un ricordo gli incassi record in tutta Italia"». È appena andato a fuoco il teatro Duemila, uno dei templi del genere che nella stagione 84/'85 non è più in cartellone, almeno non con i suoi big dichiarati. «Si lascerà che la sceneggiata muoia senza farle nemmeno una trasfusione di sangue?», concludeva il suo pezzo Tarsia.
Che cosa era successo? Lo racconta, partendo però dall'inizio, la Storia della sceneggiata di Antonio Sciotti, sottotitolo Guappi di cartone dal teatro alla tv. 1840- 1980 (Arturo Bascetta editore, pagine 192, euro 44).
Prima di tracciare l'epopea seminale della compagnia Cafiero e Fumo, però, il saggio cerca gli antesignani del format e arriva indietro nel tempo sino al 1840 quando Pasquale Altavilla, attore e commediografo ufficiale della compagnia del San Carlino, scrive «Te voglio bene assaje e ttu nu pienze a me», scritto proprio così, tanto per tornare ai soloni che hanno condannato il dialetto rap di Geolier nel nome di una «fissità» linguistica mai esistita. L'idea è semplice: costruire uno spettacolo recitato intorno al successo canoro del momento. La trama è ancora più semplice, anzi semplicistica, elementare, inconsistente. I personaggi tagliati con il coltello, il copione e le scene una scusa per sentire il brano del titolo. Isso, essa, o malamente, ma anche a malamente, i protagonisti puntuali di storie che parlano d'amore e disamore, onore e disonore, cuore e sesso, passione e tradimento, con contorno di numeri comici che alleggeriscono il tutto sino all'acme rituale in cui la «colpa» viene in qualche modo espiata o cristallizzata o esorcizzata, insomma rimossa.
Eugenio Fumo, Amedeo Girard, Aldo Bruno, la famiglia Di Maio, Salvatore e Tina Cafiero sono le stelle dimenticate di spettacoli che hanno calamitato per decenni, soprattutto tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, l'attenzione popolare, sollecitata dai temi, dalle melodie, dalle voci in palcoscenico, dall'immedesimazione in sentimenti che oggi definiremmo patriarcali, machisti, conservatori, ma anche paracamorristici. Sciotti non entra in questa vexata quaestio, ma rivendica come quella «prostituta dell'arte» sia stata praticata anche da mattatori riconosciuti come Nino Taranto, Titina De Filippo, Pupella Maggio, Totò (si, anche lui), Tina Pica, Tecla Scarano...
Prima della morte, della crisi dettata da una trasformazione della società, oltre che della stessa canzone e scena napoletana (gli anni Ottanta saranno quelli del primo sindaco comunista Valenzi e del neapolitan power, difficile riconoscersi ancora nelle morali di «Zappatore» o «'O sgarro», «'O motoscafo» e «'A legge d''a malavita») e del più remunerativo approdo cinematografico, c'è però il revival, che negli anni Settanta vede il successo delle compagnie dirette da Mario Merola, il suo unico vero rivale Pino Mauro, Mario Da Vinci, Mario Trevi. L'inizio del decennio successivo vede Nino D'Angelo e Carmelo Zappulla inserirsi nella scia, ma siamo al «the end», con l'autore che cita di sfuggita gli ultimi tentativi di resuscitare il genere, soprattutto con le riproposte del Trianon Viviani con Francesco Merola, che impediscono almeno di dichiarare estinta ufficialmente la specie.