Sveva Casati Modignani, La vita è bella: «Sono una cantastorie nonostante mia madre»

«Amo Napoli ma non la conosco abbastanza per confrontarmi con lei in un romanzo»

Sveva Casati Modignani
Sveva Casati Modignani
di Santa Di Salvo
Venerdì 24 Novembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. 25 Novembre, 07:31
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Più di un titolo, una filosofia: La vita è bella, nonostante. Sveva Casati Modignani, 85 anni magnifici, 12 milioni di copie vendute nel mondo, è ancora una volta in testa alle classifiche.

Può raccontarci i suoi «nonostante»?
«Li condivido con tante persone, perché la vita è spesso matrigna. Quando sei piccola, non vedi l'ora di crescere. Poi scopri quanto era bella quell'età indefinita in cui non ci sono ancora intoppi».

I suoi «intoppi» sono stati precoci. Lei ha raccontato di aver tentato il suicidio a tre anni.
«Scherzavo, mi hanno presa troppo sul serio. Di anni ne avevo quattro, mi hanno portato di corsa in ospedale perché avevo ingoiato un tubetto di chinino.

Ma l'ho fatto perché nel cassetto della nonna c'erano delle compresse che parevano caramelle, una meraviglia di confettini di glassa rosa».

Bambina avventurosa, direi.
«Infatti ci ho riprovato a nove anni con la pianta di ricino in giardino. Ho fatto una scorpacciata di semi squisiti che quasi mi uccidevano».

Due volte? Sospetto che qualcosa non andasse per il verso giusto in famiglia.
«Soffrivo per i continui litigi tra mia madre e mia nonna. Una volta mia madre spintonò la nonna facendola cadere in un cespuglio di ortensie. La ritrovai in lacrime davanti alla sua petineuse. Tentai di abbracciarla, mi respinse dicendomi: sei una traditrice. Da lei non ho ricevuto mai né un bacio né una carezza. Per fortuna, c'erano i molti abbracci del mio papà».

Precocemente, la vita l'ha presa a schiaffi.
«Sì, ma dopo lo sconforto per fortuna mi rinasceva dentro la voglia di fare, di comunicare. È stata la mia salvezza».

Dunque non è un caso se la serie di romanzi iniziata con «Festa in famiglia», oggi al suo quarto capitolo finale, celebra l'amicizia femminile ad ogni età. Un inno alla solidarietà tra «ragazze» che vanno a cena insieme e tra un piatto e un calice di vino ricordano il passato comune, si confidano amori e dolori, sogni e delusioni, accettandosi per quello che sono.
«Oddìo, qualche volta le mando anche a quel paese, le mie ragazze del cuore, quando sgranano il rosario dei malanni. Dai, dico loro, una volta ci raccontavamo solo dei nostri morosi...».

Raccontare, appunto. La grande passione di una vita.
«Fin da bambina, sì. Sono cresciuta con la nonna, che mi mandava a comprare il giornale e poi mi leggeva ad alta voce la cronaca nera del Corriere della Sera. Sfollati, abbiamo passato gli anni della guerra dagli zii a Trezzano sul Naviglio, con i contadini della Cascina Mezzetta che la sera davanti al camino, quando non c'erano né radio né tv, mi raccontavano storie che non ho più dimenticato».

Nasce da questa esperienza la voglia di scrivere e la vocazione al giornalismo.
«Cominciai con La Notte diretta da Nino Nutrizio. Poi passai al settimanale Lo Specchio di Nelson Page, dove tenevo la seguitissima rubrica Il Naviglio, tutti i gossip sui salotti milanesi».

Poi la giornalista Bice Cairati diventa una narratrice di successo e cambia nome. Con il primo romanzo, «Anna dagli occhi verdi», nasce il nom de plume che l'ha resa famosa.
«Lo inventò Tiziano Barbieri della Sperling, perché lo avevamo scritto a quattro mani io e mio marito Nullo Cantaroni. L'ho mantenuto per sempre, anche se dopo il terzo romanzo mio marito si ammalò di Parkinson».

E qui c'è un altro pesantissimo «nonostante».
«Vent'anni di calvario, lavorando e badando a lui. È stata una sofferenza lunga e dolorosa».

La vita l'ha ricompensata in altro modo.
«Con la fama, con il successo? No. Il dono vero che ho ricevuto è questa voglia di raccontare che non mi ha mai abbandonato. L'affabulazione è un bisogno primario dell'uomo, dai graffiti in poi. E io questo sono, una contastorie».

Lei piace molto alle donne, ma anche ai giovani.
«Sarà perché li frequento. Ho dei nipoti che adoro, m'incanto ad ascoltare gli amici che mi portano in casa. E mi vergogno profondamente di quello che lascerò in eredità. Io ho vissuto bene, ma consegnerò loro un mondo allo sfascio».

Lavora a orari regolari? Come passa le sue giornate?
«Se scrivo 5 cartelle al giorno vuol dire che ho lavorato bene. Non amo più uscire la sera, preferisco improvvisare una cena per gli amici. So fare risotti e pastasciutta, un'ottima zuppa di pesce e un paradisiaco tiramisu. Grazie al romanzo Le vigne di Angelica ho conosciuto le donne del vino e mi sono fatta una bella cultura di grandi rossi italiani. Chi meglio di me?».

Legge molto? Quali autori?
«Camilleri è per sempre. Poi mi piacciono molto gli italiani che scrivono thriller. Manzini, Rebecchi, Recami».

De Giovanni?
«Molto bravo, ma il commissario Ricciardi che vede i morti no...».

A Sud lei si è fermata a Torre del Greco con un romanzo sui «corallari». Napoli non la ispira?
«Napoli è una città che amo molto proprio per i suoi contrasti. Ma non la conosco abbastanza per confrontarmi con lei in un romanzo». 

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