I lavoratori introvabili: resta vuoto un posto su 3

I lavoratori introvabili: resta vuoto un posto su 3
di Nando Santonastaso
Venerdì 4 Febbraio 2022, 08:33 - Ultimo agg. 5 Febbraio, 09:01
5 Minuti di Lettura

Alfredo Amoroso, presidente di Generazione vincente, una delle Agenzie di lavoro in somministrazione più attive (base a Napoli, quasi 25 anni di attività alle spalle, una trentina di filiali in tutta Italia) non ha dubbi: la carenza di personale qualificato per le imprese industriali e dei servizi è effettivamente un problema. «Abbiamo avuto in questi mesi un autentico boom di richieste da parte delle aziende di cui ci occupiamo ma le vacancy sono ancora tante», dice. E per vacancy si intendono i posti che non si riesce a coprire, dagli ingegneri elettronici ai cuochi, dai tecnici della green economy e della sostenibilità ambientale ai camerieri, agli elettricisti, perfino agli operai edili.

L’ultimo, recentissimo rapporto Excelsior di Unioncamere e Anpal ha calcolato che il mismatch, la distanza tra domanda e offerta di lavoro, è balzata nel 2021 in tutta Italia al 32,2%, quasi sei punti in più rispetto al 2019. E ciò, si legge, essenzialmente per due fattori: la mancanza di candidati e la preparazione non adeguata alle rinnovate esigenze del mondo imprenditoriale. Sei imprese su 10, a quanto pare, dicono di voler assumere (e nel conto non sono compresi ovviamente gli enti locali che annunciano proprio in questi giorni, dal Comune di Caserta alla Regione Sicilia, ad esempio) sfruttando anche le risorse europee. Ma di qui a dire che l’Italia sta vivendo una fortissima e sorprendente ripresa dell’offerta di nuova occupazione, a ogni livello, ce ne corre. Perché se è vero, come ricorda Giovanni Sgambati, segretario regionale della Uil Campania, che «119 dei 130 ex lavoratori della Jacorossi hanno preferito tornare al lavoro piuttosto che accedere al Reddito di Cittadinanza», è purtroppo sempre vero che la distanza tra gli occupati del Sud e quelli del Nord rimane ben salda a oltre 20 punti percentuali (e la pandemia ha influito molto meno di quello che si poteva immaginare). Significa milioni di occupati in meno, nel Mezzogiorno, in attesa che il Pnrr riesca a invertire la tendenza. 
«Provate a garantire salari adeguati e vedrete come crescerà l’occupazione a tempo indeterminato», dice Sgambati introducendo un elemento sicuramente centrale in questo ragionamento.

Si assume poco, insomma, solo perché non si trovano competenze adeguate? O perché ad una quota non trascurabile di imprese non dispiace proporre contratti a tempo (sono l’80% dei nuovi, ricorda l’Istat) rinviando la stabilizzazione a un futuro indefinito? E ancora, quanto peserà realmente il fenomeno, per ora limitato, delle dimissioni dal posto di lavoro, diffuso negli Usa e nei Paesi anglosassoni ma che anche in Italia sta prendendo piede? 

Un economista Ocse del valore di Andrea Garnero ha scritto, con Massimo Taddei su LaVoce.info, che «la nostra economia ha perso efficienza nel far incontrare domanda e offerta già da diversi anni (ben prima che venisse introdotto il Reddito di cittadinanza, per dire). Rispetto al 2010-2013, dal 2014-2015, a parità di tasso di disoccupazione, il tasso di posti vacanti è aumentato. Non siamo in grado al momento di individuare le cause di questo salto. Un’ipotesi possibile è che la crisi finanziaria e dei debiti sovrani, la concorrenza internazionale e incentivi come Industria 4.0 abbiano modificato in parte la struttura industriale e quindi la domanda di competenze da parte delle imprese italiane, cui, però, non ha fatto seguito l’offerta». La conseguenza è che «se l’“inefficienza” nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro fosse destinata a perdurare (e magari a crescere con la transizione verde e digitale), la realizzazione degli ambiziosi piani di investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza sarebbe a rischio». 

Gli artigiani della Cna, che sul tema ha realizzato un’indagine con oltre 2mila pmi, sono ancora più espliciti: «Il nostro Paese non ha un sistema in grado di coniugare domanda e offerta di lavoro. Tant’è che il 41,1% delle imprese ammette di cercare il personale prevalentemente tramite il cosiddetto passaparola. Solo il 21,5% si rivolge alle agenzie interinali e di ricerca/selezione del personale, mentre il 16,6% del campione si indirizza a scuole e/o a istituti di formazione. L’11% si affida ai mezzi di comunicazione specializzati. E appena il 3,8% ricorre ai centri per l’impiego». 
Insomma, chi cerca nuovi profili si muove tra mille dubbi e difficoltà, a cominciare dai limiti del sistema formativo. E anche stavolta il Covid non c’entra: «Nel 2020 – dice la Cgia di Mestre - 543mila giovani hanno abbandonato la scuola prematuramente. Da molti decenni siamo tra i Paesi europei con il più alto tasso di dispersione scolastica tra i giovani: è circa otto volte superiore ai cosiddetti “cervelli in fuga”. A fronte dei 543mila studenti che hanno abbandonato prematuramente la scuola, 68mila con un titolo di studio medio-alto si sono trasferiti all’estero per ragioni di lavoro. Con un basso numero di diplomati e laureati corriamo il pericolo di un impoverimento generale del sistema Paese».

Ma allora come se ne esce? Dice Amoroso: «Le imprese vogliono comunque assumere perché sanno che se non investono su tecnici e operai specializzati non faranno molta strada. Ma dal versante della domanda si chiede che l’azienda sia sostenibile a tutto tondo. Nessuno accetta un lavoro al buio. Né si può dimenticare che oggi le imprese, tra sgravi e incentivi, hanno grandi margini per assumere a condizioni molto convenienti. Se non lo fanno è perché prevale in questa fase una certa flessibilità, per così dire: ma la nostra esperienza dimostra che il 70% dei contratti viene poi stabilizzato». 
Non è peraltro un percorso per così dire automatico: i lavoratori presi in carico dalle agenzie di somministrazione possono anche frequentare corsi di formazione per farsi trovare pronti rispetto ai profili chiesti dalle aziende. È la strada degli Its ma, dice il titolare di Generazione vincente, anche qui le incognite non mancano: «Riconvertire a 23-24 anni un giovane laureato per impiegarlo in attività del tutto differenti dai suoi studi è complicatissimo». E richiede tempo, va aggiunto: ovvero, il fattore chiave per convincere un’azienda ad assumere un lavoratore o a rinunciarvi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA