Pane e pasta, la crisi è servita: allarme siccità, raccolti a rischio

Pane e pasta, la crisi è servita: allarme siccità, raccolti a rischio
di Nando Santonastaso
Sabato 4 Giugno 2022, 00:01 - Ultimo agg. 17:00
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«Da quando è scoppiata la guerra l’aumento dei prezzi è stato fortissimo. Le fatture da 10mila euro che pagavamo ai fornitori abituali di farina sono salite a 25mila euro e l’approvvigionamento è diventato molto complicato. Un chilo di prodotto è passato da 45 a 60 euro negli ultimi sei mesi. Per restare sul mercato abbiamo dovuto adeguare i nostri prezzi al consumo ma per fortuna il crollo delle vendite, tanto temuto, non c’è stato». Al panificio Antonio Rescigno di Napoli, uno dei più antichi della città e del Sud, la crisi del grano fa paura perché, a conti fatti, è proprio sulla farina di grano tenero, necessaria per pane, biscotti e dolci, che si concentrano le maggiori preoccupazioni. L’Italia ne importa dall’estero, Ucraina e Russia comprese, per circa il 65% del suo fabbisogno, la stessa percentuale che invece produciamo in casa per la farina di grano duro, destinata alla pasta. E siccome nella Penisola ci sono ben 24mila panifici artigianali (Lombardia e Sicilia le regioni che ne hanno di più) e l’85% del pane consumato è fresco e, appunto, artigianale (il dato è di Cerved), si capisce perché l’allarme per ciò che sta accadendo sia piuttosto diffuso.

«Oltre tutto, non sappiamo più a chi credere a proposito degli aumenti dei prezzi e dei ritardi nelle consegne, dalla farina tradizionale a quella di mais, dall’olio di mais agli altri olii utilizzati per le nostre produzioni: speculazione, guerra, cambiamenti climatici?» si domandano al panificio Moccia, altra azienda leader della panificazione napoletana. E chi di grano tenero vive e lavora, come Antimo Caputo, al vertice di uno dei più antichi e quotati molini nazionali, rincara la dose: «Il grano tenero ha le più basse “rimanenze” della storia – dice – e di fronte ad un’impennata del consumo come quella prodotta negli anni a causa della crescita della popolazione mondiale e dell’emergenza Covid non ha avuto un ammortizzatore nel prezzo.

Quando i raccolti calano, la finanza mondiale fa le sue scelte come avviene sul gas e sul petrolio. Aumentare i prezzi è stata anche per noi una necessità: siamo in balia delle onde e bruciamo risorse in modo sempre maggiore. La guerra c’entra solo come ultima causa». 


Secondo la Coldiretti, l’emergenza provocata dal conflitto in Ucraina «mette in pericolo in Italia l’accesso al cibo di 2,6 milioni che hanno bisogno di aiuto per mangiare» (mentre nel mondo, sempre secondo la stessa organizzazione, sono 53 i Paesi ad altissimo rischio: quelli in cui la popolazione spende almeno il 60% del proprio reddito per l’alimentazione e dunque risentono in maniera devastante dell’aumento dei prezzi). Ma tutto ciò che sta accadendo non risparmia sicuramente i pastai che ormai da un anno stanno vivendo una crisi senza precedenti. È vero, la guerra ha influito meno rispetto ai panifici (secondo i dati più aggiornati, l’import di grano duro nel 2021 dall’Ucraina è stato pressoché nullo mentre dalla Russia non ha superato il 3%) ma il vero pericolo è un altro. L’interconnessione tra una commodity e l’altra è infatti talmente stretta in questo settore che le oscillazioni della prima (pane) «potrebbero avere effetti indiretti anche sulla pasta». Lo ha detto Luigi Cristiano Laurenza, segretario dei Pastai Italiani aderenti all’Unione Italiana Food, ricordando che l’aumento dei prezzi nell’ultimo anno ha toccato l’80% e che il mondo della pasta made in Italy è al centro di una tempesta perfetta, tra cambiamenti climatici, speculazione internazionale e corsa all’accumulo di beni essenziali. Senza dimenticare, ovviamente, i rincari dell’energia (oltre il 28% dall’inizio dell’anno), del petrolio (ai massimi dal 2014) e dei materiali da imballaggio, come spiegano al Consorzio di tutela della Pasta di Gragnano Igp: «Più della guerra, l’aumento dei costi del grano duro è imputabile a condizioni pregresse. Il primo aumento si è verificato a settembre 2021, quando la produzione globale di grano duro è diminuita notevolmente, inducendo un aumento del prezzo. Si sperava che con il prossimo raccolto, quello dell’estate, i costi della materia prima potessero diminuire rispetto ai massimi raggiunti ma la crisi russo-ucraina ha complicato lo scenario (pur non essendo l’Ucraina un bacino di approvvigionamento di materia prima per la Pasta di Gragnano IGP). Il dato confortante per il consumatore è che il rincaro pro-capite della pasta è stimato in cifre piccole, circa un euro in più sul consumo mensile». Oggi come conferma l’Unione pastai, il prezzo della pasta è più stabile ma appena due mesi fa «alcune aziende sono state costrette a chiudere temporaneamente le proprie linee di produzione per mancanza delle materie prime, o per impossibilità di consegnare il prodotto finito, causando danni per milioni di euro non solo alle imprese ma a tutto il tessuto sociale che ruota attorno a esse», spiega Laurenza.

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Il guaio è che l’Italia, già deficitaria su molti fronti per quando riguarda il cibo (produce, come detto, solo il 35% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 63% della carne di maiale e i salumi, mentre solo per latte e formaggi si arriva all’84% di auto-approvvigionamento) non si fa mancare davvero nulla. Hannibal, ad esempio, già proprio l’anticiclone che sta arroventando queste ore: «La mancanza di acqua - sottolinea la Coldiretti - colpisce i raccolti nazionali in una situazione in cui l’Italia è dipendente dall’estero in molte materie prime. Con il picco delle temperature manca l’acqua necessaria ad irrigare le coltivazioni che si trovano in una situazione di stress idrico che ne compromette lo sviluppo e la produzione». Secondo il Centro di cerealicoltura e colture industriali del Crea, il più importante ente di ricerca dedicato all’agroalimentare, «nelle regioni meridionali, le semine scalari di inizio stagione, dovute alle abbondanti precipitazioni, unitamente alle basse temperature del periodo primaverile hanno provocato un allungamento del ciclo della coltura, costringendola a una fase di riempimento della granella con temperature in forte aumento. Pertanto, in questi areali, se le condizioni meteorologiche permangono stabili, la produzione media attesa potrebbe essere limitata per effetto della stretta». Sullo sfondo c’è una vecchia verità, come spiega il presidente nazionale di Coldiretti, Ettore Prandini: «L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che hanno dovuto ridurre di quasi un terzo la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati».

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