Salemme: «Che fatica essere Napoletani Veraci»

Salemme: «Che fatica essere Napoletani Veraci»
di Titta Fiore
Domenica 1 Marzo 2020, 09:27 - Ultimo agg. 13:16
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Partiamo da qui, Salemme: Napoletani Veraci si nasce o si diventa?
«Partiamo da una premessa: io non credo alla genetica geografica, ma una cultura geografica esiste. Se sei abituato al sole, alla luce, al mare, hai una spiritualità diversa. L'ambiente agisce sullo spirito, c'è poco da fare».

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E così, riflettendo sulla Napoletanità Verace, concetto filosofico complesso che non riguarda solo il modo di intendere la vita di chi abita all'ombra del Vesuvio, ma tocca corde ben più profonde dell'animo umano, Vincenzo Salemme ha deciso di dedicare all'argomento un libro, un vademecum scherzoso fin dal titolo. «Napoletano? E famme na pizza!» (Baldini+Castoldi, 144 pagine, 15 euro) che presenterà il 9 marzo a Napoli alla Feltrinelli di piazza dei Martiri. Una guida ironica e spassosa «per sfuggire ai luoghi comuni partenopei», divertente come i suoi testi teatrali e velata di «un pizzico di appucundria» che altro non è che uno sguardo elegante e disincantato sul mondo che ci gira intorno. Ma come mai, si è chiesto il mattatore-drammaturgo, il napoletano deve attenersi a una serie di regole eccessive, mentre chi nasce altrove è più libero di essere e fare quel che gli pare? Ma è proprio vero che per essere considerati Napoletani Veraci bisogna farsi piacere il caffè in tazza bollente, mangiare il ragù la domenica e il capitone a Natale, saper cantare a fronna le melodie classiche e suonare il mandolino, amare la pizza sopra ogni cosa e tuffarsi a mare in ogni stagione dell'anno?

Già, è proprio vero? E nel suo caso, come si risponde?
«Io sono di Bacoli e ho vissuto la napoletanità con un senso di colpa, mi sembrava di usurpare un titolo cui non avevo diritto. Avere la patente di napoletanità può sembrare semplice, ma non lo è affatto».

Si devono osservare i comportamenti di cui sopra?
«Anche di più: bisogna fare il tifo per il Napoli, pregare San Gennaro, recitare a memoria la Livella, preferire il presepe all'albero di Natale, farsi vanto del Vesuvio e di Pulcinella, conoscere i numeri della Smorfia, sapere la differenza tra la mozzarella di Aversa e di Battipaglia, insomma, ci si deve attenere a una serie di regole esagerate, mentre sarebbe meglio liberarsi di questa prigione e respirare liberamente, uscire dalla gabbia degli stereotipi nella quale siamo noi stessi a rinchiuderci».

Nel libro li definisce «segni identitari, ma di una cultura dispotica e dogmatica», perché?
«Perché le consuetudini sono belle quando sono spontanee, non puoi sentirti obbligato a rispettarle. Se il caffè in tazza bollente mi ustiona la bocca, non lo prendo e finisce lì. Quando si comincia a precisare che un'identità geografica o culturale ci rende diversi, o migliori, rispetto agli altri, beh, questo non va bene».

È curioso che in tempi di globalizzazione il luogo comune sia duro a morire.
«Più cresce la globalizzazione più si restringono i confini dell'identità. È una reazione che nasce dalla paura di perdersi in un mare magnum e la capisco, ma non condivido la chiusura e l'aggressività. Dobbiamo rispettare le radici, che però devono essere esposte morbidamente. Negli anni Settanta Eduardo m'insegnò che fuori da Napoli dovevamo italianizzare il dialetto per farci comprendere da tutti. Una grande lezione. Io voglio far capire al pubblico che cos'è Napoli e regalare a piene mani la sua bellezza. Questa è la cultura che amo».

Si parla tanto di nazionalismi: la cosa influisce?
«Io credo che una comunità debba mostrarsi forte: e questo accade quando è in grado di accettare i giudizi altrui. Quando non ha paura di mostrarsi per quel che è. Io non mi vergogno mai di essere napoletano, anzi ne sono orgoglioso».

Che differenza c'è fra tradizione e luogo comune?
«La tradizione è una pratica, il luogo comune un'accusa. Si distinguono per la sincerità: solo la prima lo è».

Com'è nata l'idea di questo libro?
«Dall'invito di Elisabetta Sgarbi alla Milanesiana. Mi chiese di scrivere qualche pagina su Napoli e la speranza. Lo feci e piacquero molto. Mi propose di trasformarle in un libro che mi sono divertito a scrivere».

Tra i luoghi comuni elencati nel pamphlet ci sono le polemiche su «Gomorra».
«Per me Gomorra è come Ghotam City, una città da graphic novel, una metafora dichiarata. Non si può pensare che influisca sui comportamenti della gente. Non attribuisco al cinema e alla fiction un valore sociologico, il prodotto audiovisivo è una conseguenza, non la causa. Ad eccezione dei film di Walt Disney, che con i suoi cartoon ha cambiato il rapporto dell'essere umano con le specie animali e con la natura».

Fino all'8 marzo è in scena al Diana di Napoli, per il secondo anno, con la commedia «Con tutto il cuore», reduce da una tournée trionfale, e sempre con numeri da record. Programmi futuri?
«Per il momento aspetto che passi l'emergenza legata al coronavirus che deve vederci uniti e solidali, tutti. Il mio abbraccio va a chi è ammalato negli ospedali e in quarantena nelle case, la mia gratitudine ai medici e al personale sanitario che stanno facendo un lavoro straordinario. In questi giorni si parla tanto di contagi e di epidemie, a proposito e a sproposito, mentre sarebbe necessario un po' di silenzio e di sana ubbidienza a chi ne sa più di noi».
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