Valentina Petrillo, la transizione e lo sport: «Mi piace pensare di essere un nuovo modello di trans a cui ispirarsi»

«Sono napoletana ma non ho mai avuto un bel rapporto con Napoli: spero di recuperare»

Valentina Petrillo
Valentina Petrillo
di Emma Onorato
Lunedì 4 Dicembre 2023, 22:30 - Ultimo agg. 5 Dicembre, 10:45
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Si conclude la VI edizione della Medical device challenge, la manifestazione sportiva nata per supportare e raccogliere fondi per gli ospiti di Dynamo Camp, il primo Camp di Terapia Ricreativa in Italia che offre programmi gratuiti a bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni con gravi patologie.

«La nostra sfida è insieme», è lo slogan dell’iniziativa di solidarietà voluta da Confindustria Dispositivi Medici in partnership con Dynamo Academy - impresa sociale che supporta aziende e istituzioni nella progettazione di iniziative volte a creare un impatto sociale e contribuire al bene comune - e Fispes, Federazione Italiana sport paralimpici e sperimentali.

Tra gli atleti della squadra Fispes di quest’anno - tra cui Fabio Bottazzini, Giuseppe Campoccio, Maxcel Amo Manu e Martina Caironi - Il Mattino ha avuto modo d'intervistare Valentina Petrillo, atleta transgender che ha conquistato il doppio bronzo nei Campionati iridati di Parigi 2023. 

Cosa l'ha spinta a partecipare a questa iniziativa solidale? «Sopratutto l'aspetto dell'inclusione - commenta Valentina - Lo sport è un fondamentale veicolo d'inclusione per le persone con disabilità, ma non solo, riesce ad accogliere tutte le tipologie di persone presenti in società senza fare alcuna distinzione - continua Petrillo - Poi c'è anche un altro aspetto, più personale, che mi ha spinto a partecipare: nel corso della challenge è emersa tutta la mia grinta. Mi sono emozionata nel vivere questa esperienza insieme ai compagni della mia squadra e ai partecipanti di quella avversaria. Quindi è nata una vera sfida che ha acceso un sano senso di competizione. Poi a me piace vincere, ma dobbiamo aspettare domani per sapere chi verrà proclamato vincitore».

Cosa le ha insegnato lo sport. Quali sono i valori più importanti che dovrebbe trasmettere? «Oltre al valore dell'inclusione c'è da dire che, nel mio caso, lo sport sicuramente mi ha aiutato nel processo di autonomia per diventare una persona più indipendente - commenta Valentina ricordando di essere affetta dalla sindrome di Stargardt - Ma non solo. Mi ha insegnato il valore della disciplina, e capire la sua importanza, mi ha guidato ad adottare un certo stile di vita. La disciplina educa ad avere rispetto per il proprio corpo e a focalizzarsi sull'obiettivo senza mai perderlo di vista. Quindi lo sport, oltre ad essere la mia valvola di sfogo, rappresenta la mia salvezza personale». E da come spiega, gli insegnamenti appresi l'hanno temprata anche ad affrontare la sfera legata alla sua vita personale. «Sono nata in quartiere difficile di Napoli, San Carlo all'Arena, e quando ero un adolescente, parlare di sport era un eufemismo, considerando che ho vissuto in primo piano la piaga della droga che contaminava il mio quartiere. Un contesto complesso dove crescere: avevo il terrore di finire in quella rete». Ma la passione nata per lo sport l'ha sempre guidata sulla giusta strada da percorrere. 

Valentina Petrillo 50 anni, napoletana, atletica paralimpica in classe T12, corre nella categoria Visually impaired (essendo ipovedente). Ma è anche a prima donna trans - a livello mondiale - ad aver gareggiato in una competizione femminile con documenti maschili. Quali ostacoli ha incontrato durante il suo percorso professionale? «Quelli più grandi li associo all'impreparazione - a livello organizzativo - del mondo olimpico. Mi riferisco in particolare alla gestione di alcuni luoghi comuni, come quello dei bagni dove non era prevista la contemplazione di figure come la mia. Al contrario del mondo paraolimpico, dove invece sono previste delle toilette genderless. Un aspetto che è riuscito a sorprendermi: ha sicuramente facilitato il mio percorso d'inclusione». Poi chiosa: «Nella realtà paraolimpica non ho mai avuto alcun problema d'integrazione. C'è stata un'inclusione totale, a dispetto di quello che ho vissuto nel mondo olimpico dove ho riscontrato un accentuato ostracismo. Ricordo, ad esempio, che mi veniva impedito di accedere al bagno delle donne, nonostante avessi già ottenuto la rettifica legale dei documenti femminili». Un'esclusione del tutto arbitraria - dal momento che non c'è nessun regolamento e nessuna legge in merito - ma che, nonostante questo, si manifesta ugualmente a livello sociale (dove spesso si verificano dinamiche di discriminazione). Questo accade principalmente in quei contesti dove regna una scarsa informazione, ma c'è anche da aggiungere che, oltre al gap culturale che dovrebbe essere colmato, bisogna anche considerare che «c'è chi non ha la volontà di accettare certe realtà», come evidenzia Valentina. Quindi è discorso che viaggia sui binari di una scarsa accettazione a priori.

All’età di 45 anni ha scelto di intraprendere un percorso di transizione verso il genere femminile. Una scelta importante che denota una profonda consapevolezza ed accettazione di chi vuole essere. Come ha vissuto questa decisone? Che tipo di cambiamenti ha comportato nella sua vita e quali sono state le maggiori difficoltà incontrate? «Le maggiori difficoltà le ho vissute principalmente nello sport. A livello sociale, invece, tra le conseguenze legate a questa scelta, c'è il fatto che ho perso tutti i miei amici». Ma poi è scattato qualcosa in Valentina che ha dato il via alla sua rinascita sociale. L'incipit è associato a una domanda che ha rivolto a se stessa: «Come ti senti? Sei felice? Cosa vuoi fare della tua vita? E così la Valentina che c'era dentro di me ha chiesto il suo spazio, e finalmente ho iniziato a vivere come desideravo fare». Un cambiamento che nasce da una profonda consapevolezza di chi voleva essere, ma anche del cammino - di certo non facile - che da lì a poco avrebbe dovuto affrontare anche in termini legali. Così quando le si riconosce una gran forza interiore, lei risponde: «Più che forza, a un certo punto della mia vita è emerso un vero e proprio istinto di sopravvivenza.

Non volevo più continuare a vivere come stavo facendo. Avevo parso la gioia di vivere», precisa l'atleta. E questo stato d'animo stava iniziando ad incidere anche nel suo rapporto col figlio: «Avevo perso il desiderio di giocare con lui, stavo troppo male con me stessa». Prima di diventare Valentina, aveva avuto un bambino con la sua ex moglie. Era il 2015 quando è nato Lorenzo (che ora ha l'età di otto anni). Nel 2017, invece, ha intrapreso il suo percorso di cambiamento, e nel 2018 ha iniziato a vivere da donna. 

Ma andiamo per gradi. Quando ha sentito il desiderio di cambiare? E come è nato il suo sogno di diventare atleta? «Il mio desiderio sin da bambina era quello di emulare Pietro Mennea, che nel 1980 vinse l'oro nelle Olimpiadi di Mosca. Avevo solo sette anni e mi innamorai dei suoi 200 metri, della sua forza e del suo carattere. Così iniziai a sognare anche io quella maglia azzurra, ma volevo ottenerla come donna. Più che un sogno era un'utopia, qualcosa di irrealizzabile». E invece...«Quella maglia azzurra l'ho indossata e la indosso ancora», spiega con orgoglio e soddisfazione. A luglio, infatti, ha conquistato due bronzi ai mondiali paraolimpici di Parigi, qualificandosi così per le prossime paraolimpiadi.

Conquiste che, da come anticipa, hanno ispirato il docufilm improntato sulla sua vita. Presentato qualche giorno fa a Vienna per la Prima europea, ma che al momento ancora non è visibile nel nostro Paese. «Racconta il percorso della mia vita che mi ha portato a diventare la prima donna trans nella storia a gareggiare nella categoria femminile». E nell'attesa che il suo film venga proiettato anche qui, Valentina rivela: «Spero di riuscire a presentarlo nella mia città, a Napoli, perché nutro il desiderio di riappropriarmene». L'atleta non ha mai avuto la fortuna di vivere un bel rapporto con la sua città natale, a causa di un infanzia segnata da vicende familiari drammatiche. Così ricorda sua cugina Erica, e il tragico epilogo della sua vita: «Anche lei era trans, e avevo di terrore di fare la sua stessa fine. Così mi ero promessa che il desiderio di cambiare identità di genere sarebbe stato il mio segreto fino all'ultimo giorno di vita». Un episodio che l'ha segnata nel profondo. «Erica era vista come la pecora nera della famiglia, mio zio si vergognava di lei». L'atleta racconta che temeva di diventare la vergogna dei suoi genitori, poi aggiunge: «Anche la società mi ha sempre fatto capire che ero sbagliata e quindi la Valentina che c'era in me voleva solo nascondersi».

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Il contesto in cui viveva era complesso. Il suo quartiere - come detto in precedenza - non era molto vivibile. «Non ho avuto la possibilità di iniziare atletica a Napoli. La mia prima palestra è stata la salita di via Antonio Vitale. Qui si radunavano i drogati del quartiere, e quindi la mia prima attività sportiva era quella di correre su questa strada perché avevo paura. Scappavo da loro». All'età di 14 anni, invece, è stata colpita dalla sindrome di Stargardt (che l'ha resa ipovedente). Una diagnosi che l'ha portata a rinunciare al calcio: «Ero un bravissimo portiere», ricorda Valentina. Solo con il trasferimento a Cardito, ha avuto la possibilità di avvicinarsi all'atletica: «All'età di 15 anni ho fatto il mio primo allenamento allo stadio Pinto, a Caserta. Qui vinsi i miei primi 100 metri». Ma nonostante la performance vincente, l'atleta ricorda alcune parole che le furono dette dall'allenatore: «Questo non è il tuo sport, tu corri come una femmina». Parole crudeli, che l'avevano ferita, ma non demotivata. Un episodio che ha temprato il suo carattere e la sua forza.

All'età di 20 anni si è trasferita a Bologna - dove tutt'oggi vive - ed è qui che ha conosciuto il mondo paraolimpico: «In questa città ho comprato le mie prime scarpe da corsa e ho iniziato a fare atletica, ma anche il calcio a 5 per ipovedenti». Quest'ultimo interrotto per un infortunio.

Dal 2016 al 2018 è riuscita a conquistare ben 12 titoli italiani paraolimpici. Poi ha iniziato ad intraprendere il percorso per la transizione di genere. «Ad ottobre del 2018 ho fatto la mia ultima gara con gli uomini». Valentina voleva gareggiare con le donne. Così nel 2019 ha scelto di cominciare la terapia ormonale. Ma anche in questo caso, ha riscontrato diverse difficoltà: «Ho iniziato a cercare la soluzione, ma il problema era legato al fatto che ero la prima a farlo in Italia». Così Valentina ha portato avanti le sue prime ricerche (estese anche a livello mondiale) e grazie alla guida di una dottoressa canadese trans, è riuscita ad intraprendere il giusto percorso di terapia ormonale per realizzare il suo desiderio. La Petrillo è stata la prima atleta transgender a livello mondiale. Ha fatto da apripista: «Non abbiamo altre esperienze, sono stata la prima in assoluto. World Athletics, infatti, mi ha chiesto il consenso per studiare il mio caso a livello scientifico» e lei ha acconsentito. «Queste sono state le principali difficoltà incontrate, ma sempre nell'ottica di inclusione». Ostacoli di percorso, un percorso mai intrapreso prima. «Nel 2020 ce l'ho fatta: per la prima volta ho gareggiato con le donne - continua a spiegare Petrillo - e devo ringraziare il presidente della Fispes, Sandrino Porru e il presidente del Comitato Italiano Paralimpico, Luca Pancalli, per la vicinanza che mi hanno dimostrato il quel periodo».

Valentina, passo dopo passo, ha conquistato ben 42 titoli italiani. «La soddisfazione è tanta, soprattutto se penso che potrei diventare una fonte d'ispirazione per tante altre persone come me». Poi chiosa: «So cosa vuol dire essere trans, cosa significa vivere nell'anonimato, avere la paura di esporsi in società e quindi mi sento di dire che lo sport può aiutare». «Con orgoglio vorrei che si sapesse che sono la donna italiana - over 45 - più veloce nei 100 metri. Non è mai accaduto prima, si tratta di un record che, in questo caso, non è al livello paraolimpico ma di normodotati».

Valentina, insomma, si sente di poter rappresentare un nuovo modello di trans a cui ispirarsi per ritrovare la propria felicità. «Già dall'età di 14 anni ho vissuto sulla mia pelle la diversità. Ho avuto una grande difficoltà a fare il mio primo coming out come persona ipovedente e all'età di 45 anni è stato complicato farlo come persona trans. Il messaggio sociale che vorrei lanciare alle persone che stanno vivendo una realtà simile alla mia, è quello di non aver paura, perché le diversità rappresentano le nostre unicità. E se la società ci vuole conformare a certi modelli, noi dobbiamo essere orgogliose di quello che siamo. Dobbiamo portare alla luce il nostro essere, perché la vita è una, ed è la nostra. Così come il corpo è nostro: siamo noi che dobbiamo disporre dei nostri corpi e portare alla luce noi stessi. Solo in questo modo possiamo essere delle persone felici. E una persona felice si riconosce subito in società, perche è una persona che vuole fare, vivere, lavorare, dare tutta sua stessa per realizzarsi. Nel mio caso l'ho fatto attraverso lo sport anche se sono ipovedente e trans: due realtà difficili da affrontare nella società di oggi, ma posso dire che ora mi sento una donna felice, una donna realizzata», commenta con fierezza. «Il mio è un messaggio positivo, che parla di vittoria e speranza, e che spero possa aprire tanti scenari in futuro - poi chiosa - Desidero che questo avvenga perché per me lo sport resta l'ambiente che può far rinascere. Aiuta a non abbattersi e regala tante soddisfazioni. Io vivo per lo sport e spero che tutti possano praticarlo senza alcuna barriera», conclude con speranza l'atleta.

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