Claudio Tesauro e la sua Napoli: «Io, avvocato dei bimbi da Napoli al Vietnam»

Claudio Tesauro e la sua Napoli: «Io, avvocato dei bimbi da Napoli al Vietnam»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 29 Ottobre 2021, 16:00
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Il liceo Umberto e i filoni al parco Virgiliano, le pizzette di Moccia, i lunghi giri in Vespa, le scorribande alla Duchesca per comprare Levi's originali ma difettosi, quelli con l'etichetta tagliata sulla tasca posteriore. E poi gli amici dei Gesuiti, le partitelle all'hotel San Germano, i primi weekend a Capri senza genitori e quella sensazione di allegria, e spensieratezza, che gli torna in mente non senza un po' di nostalgia. Claudio Tesauro, classe 65, avvocato, esperto in diritto delle Comunità europee, partner e coordinatore del dipartimento antitrust del prestigioso studio Bonelli Erede - dal 2007 è presidente di Save the Chidren Italia, la più grande organizzazione internazionale per la difesa e promozione dei diritti dell'infanzia. 

Si occupa anche dei bambini di Napoli?
«L'ho promesso a me stesso nel giorno in cui mi hanno offerto la presidenza».

Promessa mantenuta?
«Direi proprio di si.

Con la campagna Illuminiamo il futuro - tanto per fare un esempio - abbiamo restituito spazi abbandonati alla vivibilità dei bambini del rione Sanità, Barra e Chiaiano».

In che modo?
«Offrendo loro quello che ogni genitore vorrebbe per i propri figli: doposcuola, sport, teatro, attività ricreative. Abbiamo sperimentato perfino i giochi acrobatici come modello alternativo di supporto all'educazione. E ha funzionato».

Bel progetto.
«Se ho accettato quell'incarico è perché avevo un solo grande obiettivo».

Quale?
«Sarò l'avvocato di tutti i bambini, mi dissi. Difenderò e promuoverò con tenacia e passione i loro diritti, in linea con la missione di Save the Children».

Altrimenti non lo avrebbe fatto il presidente?
«Inizialmente qualche dubbio l'ho avuto. Da un lato mi trovavo nel pieno della mia crescita professionale, e dunque con poco tempo a disposizione; dall'altro ero pronto a partire per andare a adottare il mio primo figlio».

Dove?
«In Vietnam. Poi di bambini ne abbiamo adottati due. Uno ad Hanoi, l'altra a Saigon. E vi assicuro che è una esperienza meravigliosa. La nostra è una famiglia che scherzosamente definisco United colors. Io napoletano, mia moglie olandese, i nostri figli vietnamiti».

E che cosa la convinse ad accettare l'incarico?
«Le parole del direttore generale. Mi disse così: Claudio, pensa che bel segnale: nello stesso anno adotti un bimbo asiatico e diventi presidente di una organizzazione a tutela dell'infanzia».

Bastò a convincerla?
«Subito. E bene feci perché da allora di battaglie in difesa dei bambini ne abbiamo vinte tante. Attualmente sono 37 milioni i minori che beneficiano dei nostri interventi: dal contrasto all'Aids alla lotta allo sfruttamento».

Torniamo alla famiglia multicolor.
«Straordinaria. Purché in campo, e loro lo sanno, il colore sia uno solo».

Facile immaginare quale.
«Sembra ieri che festeggiavo in giro per Napoli la vittoria del primo scudetto, e poi pure quella del secondo. Siamo stati fortunati, noi giovani degli anni Ottanta, ad aver vissuto Maradona. I napoletani, e ci scherzo su con i miei compagni di stadio, si dividono in due categorie: chi ha visto giocare Diego e chi no. Peccato per i secondi».

Grande tifoso, insomma.
«Soprattutto da ragazzo ho fatto qualunque cosa pur di essere in campo. Ricordo che mi ero appena trasferito a vivere in Belgio. Dopo una toccata e fuga a Napoli, in compagnia di un amico, a bordo di un'auto carica di ogni cosa, facevamo lentamente ritorno a Bruxelles. Il Napoli giocava a Bologna, non resistemmo alla tentazione e ci fermammo a vedere la partita».

Ne valse la pena?
«Andò alla grande anche perché quel 22 aprile del '90 noi vincemmo e il Milan perse: in pratica lo scudetto era nostro. Ovviamente, arrivato a Bruxelles, il mio primo problema fu quello di capire come fare per essere al San Paolo il giorno della sfida decisiva contro la Lazio».

Quindi?
«Botta di fortuna. Venne fuori un appuntamento di lavoro: tornai a Napoli e pure col biglietto pagato dal cliente».

Claudio Tesauro avvocato antitrust e - almeno per un certo periodo - Giuseppe Tesauro presidente dell'Authority. Conflitti di famiglia?
«Beppi era un cugino di mio padre, vincolo di parentela che ci consentiva di essere controparti. Ed è capitato più volte. Ricordo che alle cene di Natale non volevamo neanche sederci uno accanto all'altro».

Gran rigore.
«Forse avevamo adottato un canone interpretativo un po' troppo rigido. Finito il suo mandato, ripensando a quelle serate trascorse guardandoci con diffidenza, ci abbiamo riso su».

Dove vive attualmente la famiglia United colors?
«A Roma, ma a Napoli torno spesso. È la mia città e le sono profondamente legato anche se mi fa tanta rabbia vedere sprecate le grandi potenzialità di cui potrebbe disporre».

Vecchia storia.
«Ricordo, da presidente di Invitalia, i numerosi sopralluoghi a Bagnoli. Grandi progetti e battaglie mai vinte. E ogni volta che mi trovavo lì pensavo a me, adolescente, quando in Vespa andavo in giro per Coroglio e quello mi sembrava il paradiso».

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