Clan di camorra, a Napoli l’abbraccio in cella tra vittime e ergastolani

Uccisi per errore o per un no al racket, l’incontro tra i loro parenti e i detenuti

Detenuti e familiari delle vittime innocenti di camorra discutono di perdono
Detenuti e familiari delle vittime innocenti di camorra discutono di perdono
di Giuseppe Crimaldi
Martedì 14 Febbraio 2023, 23:58 - Ultimo agg. 24 Febbraio, 14:13
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Da un lato i detenuti nei reparti di alta sicurezza del penitenziario di Secondigliano, dall’altro loro, i parenti delle vittime innocenti uccise dalla camorra. Nel carcere si parla di uno degli argomenti che resta una ferita aperta e incancellabile: la violenza atroce che colpisce chi - senza alcuna colpa - oggi non c’è più per la brutalità di una violenza inaccettabile, senza senso. E non a caso l’incontro avviene con i reclusi che, in buona parte, scontano la pena dell’ergastolo.

L’iniziativa, voluta dal Garante campano per i detenuti, Samuele Ciambriello, si inserisce nell’ambito del progetto «Parole in libertà», ideato dalla Fondazione Polis e dalla Fondazione Banco di Napoli, insieme con il quotidiano “Il Mattino”, con il quale un gruppo di detenuti delle carceri napoletane di Poggioreale e di Secondigliano scrive settimanalmente articoli giornalistici pubblicati ogni lunedì dal nostro giornale.

Un faccia a faccia fuori dagli schemi, durante il quale si è affrontato senza infingimenti e con momenti di vera commozione quello che - con una semplificazione giornalistica che tuttavia non sempre rende giustizia alla condizione di «vittime e carnefici».

Lo spiega bene lo stesso Ciambriello, introducendo il dibattito: «Ripartire tutti da una seria presa di coscienza è fondamentale. Quello che stiamo costruendo con questa iniziativa è un ponte, ed è giusto che si affronti l’argomento del perdono, inteso lessicalmente com’è giusto che sia: un dono per». Il Garante introduce gli ospiti: Bruno Vallefuoco, padre di Alberto, uno dei tre ragazzi trucidati «per errore» da un commando di camorra a Pomigliano d’Arco il 28 luglio del 1998; Giuseppe Miele, fratello di pasquale, ucciso dai camorristi nella sua abitazione di Grumo Nevano perché si era rifiutato di pagare il racket. Ed infine don Tonino Palmese, teologo docente della Pontificia Università e presidente della Fondazione Polis.

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Le storie di ingiustizia e violenza raccontate da Vallefuoco e Miele hanno l’effetto di catalizzatori dell’attenzione dei circa sessanta detenuti presenti nella palestra del carcere di Secondigliano. «Dopo quello che è successo - dice Bruno Vallefuoco - ho deciso che fosse giusto andare a cercare le risposte dall’“altra parte”, scoprendo una verità sconvolgente nel momento in cui ti accorgi che le responsabilità della tragedia che ci ha strappato Alberto era forse anche la mia, la nostra: quella di non avere visto in tempo, di essermi tante volte girato dall’altra parte per non guardare ciò che avveniva fuori.

Il perdono? È una grazia, ma io ho cercato di seguire un percorso laico: riconciliandomi con l’“l’altro”, prima che con me stesso». Poi tocca a Miele: «Dopo la morte di mio fratello ho trovato il coraggio di andare avanti mettendoci la faccia, testimoniando anche al processo “Terra bruciata” in Corte d’Assise. E oggi, al termine di un percorso non facile, mi dedico a fare volontariato tra i detenuti di Secondigliano».

I detenuti ascoltano, poi scattano lunghi applausi, e alcuni interventi: «Anche noi, oggi, ci rendiamo conto di essere ormai vittime dei nostri comportamenti sbagliati, dei nostri errori», dice Paolo. «Stiamo scontando le nostre colpe - gli fa eco Antonio - ed è giusto che sia così: ma chi veramente penserà al nostro reinserimento nella società, quando usciremo di qui? Un recluso africano non regge alla commozione, la sua voce si incrina quando dice che «non è vero che la legge sia uguale per tutti...».

A don Palmese le conclusioni. «Nei miei vent’anni di frequentazione delle famiglie delle vittime innocenti ho capito che la parola “perdon” andrebbe cancellata dal vocabolario. Inutile restare nel deserto del proprio dolore e della rassegnazione. Chiediamoci se uno che ha commesso un delitto è solo un carnefice o anche “altro”. Ha ragione Ciambriello quando dice che l’undicesimo comandamento è l’indifferenza».

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