Napoli, le mani su Villa Bertè: «Il boss del Vomero vuole il castello»

Napoli, le mani su Villa Bertè: «Il boss del Vomero vuole il castello»
di Leandro Del Gaudio
Mercoledì 17 Novembre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 18:56
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Un’ossessione, più che un semplice affare criminale. Un sogno (distorto) covato da bambino, da quando percorreva le rampe della tangenziale e arrivava all’altezza dell’uscita dei Colli Aminei: lo vedeva svettare, il “castello”, anche se poi in effetti è una ex villa monumentale, un edificio storico che in passato ospitò addirittura un cenacolo di poeti e intellettuali, uomini di cultura in uno dei posti più panoramici della città. Ed è così che quando ha visto che qualcuno ci aveva messo mano, per dare inizio alle operazioni di restauro, il boss del Vomero non è rimasto fermo. Soliti metodi, brutto refrain. Sentiamo alcune intercettazioni: «Quel castello sta nella nostra zona... ho parlato con il boss... vuole il castello... la tangente ci spetta». Parole captate lo scorso ottobre, nell’ambito dell’inchiesta a carico di soggetti del calibro di Giovanni Caruson, di Andrea Basile e di Diego Cimmino, ritenuti esponenti di spicco del clan Cimmino. Parole e probabili trame estorsive finite in una informativa della Mobile depositata in questi giorni al Riesame. È l’inchiesta sul racket degli ospedali, che svela anche un altro filone: le presunte mire su Villa Bertè, il “castello”, l’edificio storico per molti anni abbandonato, che campeggia nella zona collinare, non lontano da Cardarelli e secondo Policlinico, stando a quanto emerge da intercettazioni ora in parte disvelate. 

Tanti “omissis”, un solo progetto, non andato in porto grazie alla retata messa a segno lo scorso 29 ottobre. Su cosa puntava il clan vomerese? «Questo castello è una patata bollente, quello non è facile...», dice in modo sibillino Caruson, riferendosi ad un presunto progetto di aggredire l’operazione finanziaria che sta a monte del restauro. E sono diverse le intercettazioni in cui si fa esplicito riferimento al «Castello», al sogno del «Castello», al problema del «Castello», al punto tale da rendere necessario un chiarimento: la struttura presa di mira non è un castello, ma in passato era conosciuta anche come Torre Caselli (dal nome dell’antica famiglia nobiliare calabrese giunta a Napoli secoli fa), al punto che al Vomero viene conosciuta semplicemente come “Castello”. Fatto sta che gli uomini della Mobile, agli ordine del primo dirigente Alfredo Fabbrocini, il ruolo di reggenti, affiliati, ambasciatori, intermediari, ma anche passaggi di mano, contatti trasversali per imporre la leadership o affarmare - in una logica distorta - il proprio diritto al racket territoriale. 


A parlare è Diego Cimmino, che sembra abbastanza ferrato sulla materia: «Zio - dice rivolgendosi a uno dei presunti complici del padre - è di particolare interesse... sono riusciti a sbloccarlo, ora fanno la messa in sicurezza, ci verranno box e appartamenti...». Un comitato d’affari, una sorta di assessorato ai lavori pubblici, perfettamente a conoscenza del valore dell’operazione, del potenziale ricasco economico (a proposito di pizzo), ma anche dell’opportunità di salvaguardare le procedure amministrative in corso che hanno consentito di rilanciare l’ex immobile di pregio. Inchiesta condotta dai pm Celestina Carrano e Henry John Woodcock, sotto il coordinamento dello stesso procuratore Gianni Melillo, sono state confermate le misure cautelari a carico di presunti boss e affiliati.

In questi giorni tocca a funzionari pubblici, dirigenti, sindacalisti, tutti finiti agli arresti domiciliari. Sono accusati di aver favorito gruppi imprenditoriali nel corso di gare di appalto e procedure amminisrative per la riqualificazione di padiglioni e aree ospedaliere. Lavori attualmente al palo, al netto dei finanziamenti pubblici sbloccati, su cui la “commissione dei clan cittadini” aveva lanciato la propria rete. 

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