Chiesa e camorra, don Franco Rapullino: «Basta ambiguità, clan fuori dalla porta»

Chiesa e camorra, don Franco Rapullino: «Basta ambiguità, clan fuori dalla porta»
di Maria Chiara Aulisio
Giovedì 24 Febbraio 2022, 11:00 - Ultimo agg. 15:24
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Don Franco Rapullino, parroco nella chiesa di San Giuseppe a Chiaia, è appena tornato da un viaggio in Siria, ad Azeir-Homs per l'esattezza, dove sorge il monastero di una piccola comunità di religiose italiane dedite alla vita monastica e alla preghiera in un Paese sconvolto dalla guerra. Una testimonianza vera della presenza di Dio anche tra le macerie siriane, dice don Franco, che in quel monastero, ogni volta, lascia un pezzo di cuore.

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Dalla Siria a Napoli. Ha sentito dei vertici di camorra organizzati in sagrestia con la complicità di un parroco?
«Certo che ho sentito.

E sono rimasto sbigottito. Che dire? Spero in maggiori approfondimenti da parte degli inquirenti. Si potranno forse chiarire aspetti rimasti ancora oscuri. Vedremo: la mia è un'attesa fiduciosa».

Negli anni - tanti - in cui è stato parroco a Forcella le è mai capitato di ricevere pressioni da parte dei clan?
«Voglio essere subito chiaro: fare il sacerdote in quelle zone vuol dire avere a che fare con gente che in buona parte delinque. La stessa che poi viene in chiesa, chiede di ricevere i sacramenti e vuole pure la benedizione».

Quindi?
«Li accogli. Li accogli valutando caso per caso. E anche con gioia: nella rete di pesca di un parroco più conversioni riesci a mettere dentro e meglio avrai fatto il tuo lavoro».

Una chiesa aperta, insomma.
«Attenzione, però. Aperta alle persone, non ai clan di camorra».

Che cosa vuole dire?
«Sapevo di non essere parroco del Paradiso ma di un popolo. Ho ricevuto spacciatori, scippatori, rapinatori, prostitute. Mi sdegnavo, talvolta reagivo in maniera durissima, in qualche caso sono anche riuscito a riportarli sulla strada giusta. Mi dicevano don Fra', lo facciamo solo perché dobbiamo fare mangiare le nostre famiglie. Li ascolti, dai loro fiducia e speri che qualcosa cambi. È questo il nostro ruolo».

Nessuno quindi le ha mai chiesto complicità?
«Non è mai successo, eppure a Forcella e Porta Capuana ci sono stato 19 anni».

Nel feudo del boss Luigi Giuliano.
«Una volta si presentò in parrocchia Gemma Giuliano, venne con il suo fidanzato: dovevano sposarsi ma non avevano fatto la cresima. Spiegai loro che c'era il corso da seguire. Ricordo come se fosse ieri il sacrestano che con aria preoccupata mi disse don Fra', ma avete capito chi sono?».

Lei ovviamente aveva capito.
«Non solo avevo capito ma ritenevo che quel cognome fosse un motivo in più per pretendere il rispetto delle regole».

Come andò a finire?
«Nell'unico modo possibile. Seguirono il corso, fecero la cresima e poi si sposarono. Eccezioni non ne facevo. E nessuno si è mai permesso di chiedermele: i clan sono sempre rimasti fuori dalla mia porta. È chiaro che dire di no a chi non è abituato a rispettare le regole può essere molto pericoloso».

Quindi ha rischiato?
«Follia e fede vanno di pari passo con l'incoscienza».

Diciamo che altrove sono stati meno incoscienti.
«Ho sentito di vicende molto gravi. In ogni caso non voglio entrare nel merito di inchieste giudiziarie che non conosco e fatti, spero, ancora da chiarire fino in fondo».

Sembra ci sia una grande devozione da parte della camorra.
«Il confine tra sacro e sacrilego è molto labile. Luigi Giuliano, nella casa di via Sersale, si era fatto costruire perfino una vasca che replicava quella di Lourdes».

Religiosità popolare.
«Quella non manca mai. E non solo a Forcella. Ma oggi la situazione è assai diversa dagli anni in cui ero parroco a Santa Maria della Pace».

In che senso è diversa?
«La Chiesa non va più di moda, ha perso valore pure tra i camorristi. Non ha potere politico e nemmeno economico. Nessuno farebbe affari con un socio che vale poco. Oggi la nostra potenza è solo nel Vangelo, e del Vangelo ormai non importa niente a nessuno». 

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