Coronavirus a Napoli, il popolo dei senza sussidio tra badanti in nero e ambulanti

Coronavirus a Napoli, il popolo dei senza sussidio tra badanti in nero e ambulanti
di Antonio Menna
Venerdì 17 Aprile 2020, 07:30
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La catena salta sempre sull'anello più debole. E le più deboli sono loro, quell'esercito di colf e badanti che le famiglie hanno chiuso fuori. Un po' perché, sigillati nelle proprie case, ognuno fa per sé; un po' per la paura di aprire a chi non sia della cerchia familiare. Ma i primi a pagare, sulla giostra di questo virus che ha frantumato i più fragili, sono state proprio le collaboratrici domestiche, che erano anche baby sitter dove c'erano bambini, o badanti dove c'erano anziani. Angeli della casa, pagati poco, spesso in nero, ancora più spesso stranieri senza permesso e oggi allo sbando. Sono donne dell'est o filippine, o a volte uomini indiani o del Bangladesh. E in questa crisi improvvisa e lacerante sono davvero i posti in piedi dell'ultimo vagone dell'ultimo treno. La Cgil Campania ha provato a fare un po' di conti. Colf e badanti regolarmente assunti erano 48.137 ma oltre la metà di loro non completava l'anno lavorativo. Occupazioni occasionali: in media 24 ore l'anno. Ma solo 16mila vivevano con le famiglie. Tutto il resto, oggi, è in dismissione. Usciti di casa per non rientrarvi più. E a questi, secondo i sindacati, si aggiungono almeno altrettanti in nero, invisibili, mai censiti e oggi chiusi chissà dove a patire la fame. «Va garantito - dicono la Cgil Campania - un sostegno al reddito; così come è urgente che a quante operavano in regime di convivenza e ora allontanate o licenziate sia garantito un alloggio». «Io sono ospite di due amiche dice Hyrin, una giovanissima indiana che ha lavorato due anni presso una famiglia del Vomero ma tante di noi non sanno come fare, dove andare. Non possono neppure tornare in patria, con i voli fermi. Siamo tanti ad aver perso lavoro e casa. Speriamo si sblocchi tutto presto». Un esercito che non viene intercettato neppure dai sussidi pubblici: non hanno le carte in regola. Niente reddito di cittadinanza, niente pacco alimentare. Aiuti di qualcuno, a volte delle stesse famiglie con cui lavoravano.
 

 

Ma il treno degli ultimi è affollato. Sono diverse le categorie del lavoro che il virus ha colpito al cuore. Gli ambulanti, per esempio. Pietro affida a Facebook, con un video, il suo sfogo. «Sono una partita Iva dice -, il camion è bloccato, la merce è da buttare, più di 40 giorni che non esco, non ho soldi dell'assicurazione, come dobbiamo fare?». Anche Vincenzo vendeva, nei mercati, col suo furgone, prodotti alimentari e dolciari. Ora il Ducato bianco è fermo sotto casa ancora con i tendoni sul tettuccio. «Ho una famiglia, pago fitto di casa, luce, la merce è andata a male. Non possiamo uscire per vendere e siamo stati abbandonati». Per i mercatali, che ieri hanno protestato a Scampia, il paradosso è che negozi alimentari e di varia natura restano aperti e devono tenere i clienti fuori in fila. «Perché non consentono di vendere anche a noi, che siamo per strada, non facciamo assembramenti e ci possiamo organizzare su qualche piazzola di sosta?». Lo stesso lamento arriva dai padroncini di camion che facevano svuotamento cantine, trasporti, traslochi spesso con una, due persone. «A chi davamo fastidio con un trasporto ogni tanto? si domanda Nicola -. È vero che tutto si è fermato e che pure noi alla fine poco potevamo fare. Ma perché toglierci almeno la possibilità di combinare qualcosa. Potevamo pure essere utili ai comuni, agli enti per servizi utili. Qualunque cosa per non stare fermi».
 

Salvatore Napolano è un giovanissimo barbiere che ha ereditato l'arte dal padre Castrese. Usa i social per comunicare con i suoi clienti, e proprio sulla sua pagina Facebook, con una diretta con tanto di mascherina, aggiorna sugli sviluppi della sua situazione. «Non sappiamo niente ancora dice -. Non sappiamo quando apriremo, e come. Ci sarà lavoro più organizzato. Sicuramente cambia tutto: mascherina, guanti, tovagliette monouso sterilizzate, pettini e forbici imbustati sterilizzati, copriscarpe, mantellina monouso, e poi appuntamenti uno per uno. Nel salone dovremo stare solo in due: io e il cliente. Sarà dura. Sarà durissima». C'è l'ansia economica per l'oggi e la preoccupazione anche su come sarà la ripresa. Durante la diretta scappa anche qualche lacrima, un momento di commozione. Investimenti fatti per ammodernare il locale e la chiusura improvvisa, come un fulmine. Noi abbiamo indossato la mascherina ricorda Salvatore prima ancora che si vedessero per strada, e abbiamo fatto la prima sanificazione il 3 marzo. Ma poi hanno chiuso tutto e noi per primi. Alla ripresa, quando sarà, ci faranno lavorare in modo quasi impossibile».
 
 

Negozio aperto e chiuso: in qualche caso, il virus ha colpito davvero con la precisione di un killer.
Maleji è un negozio aperto da tre donne che si sono messe insieme per vendere abiti e accessori rigenerati. Un piccolo locale elegante, una esposizione di materiali di prima qualità, collezioni firmate, a prezzi concorrenziali. I lavori sono durati tutto il mese di febbraio. L'inaugurazione, il 6 marzo. La chiusura a causa del coronavirus il 10. Nemmeno il tempo di alzare la saracinesca che hanno dovuto abbassarla. «Qualcosa vendiamo on line - dice Elena, una delle titolari - ma è stato un brutto colpo. Chiaramente siamo pronte per la ripresa. Ma c'è preoccupazione: metteremo dispenser di gel, faremo sanificazioni, ci atterremo a tutte le disposizioni. Ma certamente sarà difficile anche riallacciare il rapporto con le persone». 

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