Hanno ammesso le proprie responsabilità, indirizzando alla corte lettere di scuse all'insegna di una sorta di dissociazione rispetto ai reati consumati anni fa. Poi, hanno fornito la propria disponibilità a versare 150mila euro ai parenti dell'uomo ucciso, a distanza di quindici anni dai fatti. Strategia da basso profilo, da parte del boss Giuseppe Polverino, noto come o barone, nel corso di un'udienza che si è tenuta dinanzi alla corte di assise di appello di Napoli. Condannati in primo grado all'ergastolo per l'omicidio di Enrico Amelio, imprenditore edile di Mugnano, oggi gli imputati provano a giocare una nuova carta: sostengono di aver raccolto fino a 150mila euro, da consegnare ai parenti dell'imprenditore (che si sono costituiti parte civile). Soldi raccolti una sorta di colletta familiare, che potrebbero essere messi sul piatto della giustizia con una serie di assegni circolari. Inutile scavare sulla provenienza del denaro, al momento conta solo la disponibilità a risarcire, magari in vista di uno sconto di pena, al termine del secondo grado di giudizio. Chiara la strategia del boss Polverino e di alcuni imputati in questo procedimento: passare dall'ergastolo alla condanna a trenta anni di reclusione, uscire dalla curva del fine pena mai.
Quinta corte di assise d'appello (presidente Rosa Romano), gli imputati sono difesi - tra gli altri - dagli avvocati Antonio Briganti, Mario Bruno Giovanni Esposito Fariello, Raffaele Esposito, Paolo Trofino, e sono accusati di aver ucciso un imprenditore onesto, estraneo alle logiche del malaffare, nel corso di una sorta di spedizione punitiva.
Venne gambizzato Enrico Amelio.
Sabato mattina, nel corso del suo intervento, la più alta carica requirente del distretto di corte di appello ha denunciato: «Le dissociazioni pure e semplici» di esponenti di clan camorristici «portano talvolta a riduzioni di pena che non sarebbero opportune. Attraverso alcuni suoi esponenti si arriva alla dissociazione e questo senza fare alcuna chiamata di correità se non a se stessi o a soggetti deceduti o già collaboratori di giustizia. Questi esponenti sono arrivati a intraprendere iniziative giudiziarie nei confronti di magistrati, giornalisti, collaboratori di giustizia e testimoni perché questi sostenevano che erano stati o erano camorristi». Secondo Riello «questo la dice lunga sulla protervia della criminalità organizzata e su quanto la criminalità organizzata riesce a fare, nonostante abbiamo tenuto alta la guardia della nostra attenzione pur in uno degli anni più difficili».
Ma torniamo alla storia dell'imprenditore ucciso. Torniamo agli assegni pronti ad essere staccati per chiudere il caso di un imprenditore scomodo, zittito per la sua volontà di difendere il territorio dalla camorra flegrea. Si torna in aula il prossimo primo marzo, ora tocca al pg articolare le proprie conclusioni, anche alla luce della mossa sfoderata ieri all'inizio del processo di appello.