Napoli, parla il Prefetto Pantalone: «Allarme racket, poche le denunce»

Napoli, parla il Prefetto Pantalone: «Allarme racket, poche le denunce»
di Paola Perez
Mercoledì 2 Dicembre 2015, 10:21 - Ultimo agg. 10:25
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«Il fenomeno del racket non accenna a diminuire. E le denunce sono troppo poche». Va subito al cuore del problema il prefetto Gerarda Pantalone: con le associazioni anti-pizzo ha un rapporto quasi quotidiano, conosce bene l'emergenza, prova a studiare le contromisure.

«Lo so che suona strano se a dirlo è un rappresentante dello Stato - prosegue - ma il problema di fondo, oltre la paura, è quello della scarsa fiducia nelle istituzioni. Su questo fronte dobbiamo impegnarci al massimo. Noi da un lato, tenendo le porte aperte ai bisogni della gente; i cittadini dell'altro, dimostrandosi disponibili a segnalare l'illegalità».

Sulla vicenda di Ciro Moccia cosa si può dire? «Quanto allo scenario, ci sono indagini in corso».

E sulle modalità dell'agguato?
«Che testimoniano la volontà di rappresentare un atto di forza ben visibile. Il livello dell'aggressione è stato altissimo. Un raid da professionisti, gente che sa sparare senza uccidere, che voleva dare un messaggio molto evidente».

Come si inquadra oggi, tra a Napoli e provicia, il fenomeno del racket?

«Possiamo leggerlo essenzialmente da due punti di vista. La prima considerazione da fare è che rappresenta sempre e comunque uno dei business più redditizi per la criminalità organizzata. La seconda riguarda i raid intimidatori: i gruppi malavitosi usano la potenza di un attentato non tanto e non solo per spaventare la vittima, ma anche o soprattutto per mostrare il loro predominio sul territorio».
Poche denunce, diceva.
«Pochissime, insisto».

Perché?
«Non è solo paura. In molti casi, purtroppo, sottostare al ricatto diventa assuefazione a un sistema. È un'esperienza che la gente ha sempre vissuto, continua a vivere, e in qualche modo si aspetta».

Diventa un fatto normale, insomma?
«Normale magari no, forse è un'espressione eccessiva. Diciamo che si mette in conto la possibilità. Molti non capiscono che soltanto la ribellione consente di liberarsi da un incubo. Serve una svolta culturale».

A parlare con le forze dell'ordine, però, qualche rischio si corre.
«Questo è innegabile».

E allora come si può convincere un imprenditore o un commerciante a chiedere aiuto?
«La soluzione migliore è affidarsi alla rete delle associazioni. Chi vuole denunciare si espone meno, perché non è obbligato a varcare la soglia di un commissariato o di una caserma dei carabinieri. Ci sono persone che raccolgono informazioni in maniera confidenziale, direi quasi amichevole».

Detta così sembra semplice.
«In realtà non lo è. Esistono realtà territoriali, a Napoli come in provincia, dove diventa difficile persino aprire la sede di un'associazione. O meglio, i locali vengono inaugurati e non ci va mai nessuno. In questi casi si cerca una strada alternativa, si crea uno sportello virtuale, un sito internet o un numero verde».

E in questo modo funziona?
«Non è detto. Quando il contesto è veramente ostile, i telefoni restano muti e le pagine web vuote».

Un tempo c'erano i poliziotti di quartiere...
«Ci sono ancora».

È un esperimento sul quale bisogna continuare a puntare?
«Il sistema va potenziato, ma non è la giusta contromisura per il racket. Mica possiamo mettere un poliziotto accanto a ogni cittadino. L'associazionismo funziona meglio».

Il meccanismo dell'estorsione è cambiato?
Le vittime sono più spesso titolari di grandi aziende o piccoli commercianti?

«Sostanzialmente è immutato, e prende di mira tutte le categorie».

E quali sono le categorie che più facilmente denunciano?
«Da quanto ho potuto vedere personalmente negli incontri presso le associazioni, i più battaglieri sono i grandi imprenditori del settore alimentare, dolciario in particolare. Non solo si mostrano pronti a segnalare i tentativi di estorsione, ma si schierano in prima linea nelle iniziative di legalità».

Dove trovano tanto coraggio?





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