Venticinque anni per arrivare a un verdetto di primo grado. Dal 1997 al 2022 per un nulla di fatto: un quarto di secolo, passando dalla lira all’euro, vedendo cambiare papi e governi, ma rimanendo ancorati al tempo immobile (o quasi) del processo penale a Napoli. E le sorprese non sono finite: se si vanno a leggere le motivazioni delle assoluzioni giunte alla fine del primo grado di giudizio, spuntano altri risvolti inediti. Uno dei motivi che ha spinto i giudici ad assolvere tutti gli imputati, a distanza di 25 anni dagli arresti, è legato alla posizione del principale teste di accusa: si tratta di agenti sotto copertura, infiltrati nella camorra napoletana per conto della Procura, che non possono essere “escussi” in aula. Prima sezione penale, collegio B, cinque assoluzioni in favore di imputati ritenuti responsabili di aver fatto parte di un’organizzazione camorristica radicata tra i vicoli di rione Sanità. Armi, droga e camorra sono le accuse ipotizzate dalla Dda di Napoli, a carico di Giuseppe De Maio, di Alfredo De Maria, Pasqualina Pastore, Nicola e Salvatore Torino (difesi - tra gli altri - dai penalisti Raffaele Chiummariello, Domenico Dello Iacono e Riccardo Ferone). Sotto accusa erano finiti soggetti ritenuti legati a una costola criminale che per alcuni anni ha seminato terrore a Napoli.
Parliamo dei presunti affiliati del clan di Salvatore Torino, protagonista nel 2005-2006, di una sanguinaria scissione contro i Misso di Largo Donnaregina, che provocò anche alcune vittime estranee alla camorra.
Ma seguiamo il ragionamento dei giudici della prima sezione penale, collegio B, i magistrati Maria Armonia De Rosa (presidente del collegio), a latere Eliana Franco (giudice estensore), e Maria Tartaglia Polcini: «L’istruttoria non è stata completata in quanto, rispetto alla corposa attività di indagine, su cui invero non è stato possibile escutere i testi del pm, eseguita anche al fine di riscontrare il contenuto delle intercettazioni, il pm ha rappresentato che fulcro dell’attività investigativa è stata l’attività posta in essere da agenti sotto copertura, a riscontro del contenuto delle intercettazioni». E ancora: «Si tratta di attività che però non può essere oggetto di verifica dibattimentale, quanto ai presupposti normativi legittimanti le operazioni sotto copertura, di ritardato sequestro, di intercettazione, atteso che non è stato possibile rinvenire in atti necessari decreti autorizzativi. È noto infatti che l’agente sotto copertura è quel soggetto che, per motivi di indagine, partecipa all’attività criminosa altrui, al fine di farla fallire e farne arrestare gli autori; controlla e osserva l’attività illecita altrui, senza poter dare esecuzione al reato». Venticinque anni dopo, si scopre che quegli spunti investigativi non potevano essere condotti in aula, (anche per la mancanza di decreti autorizzativi di intercettazioni), che non c’era nulla a supportare la vita di un uomo under cover.