Operaio ucciso per sbaglio, i killer provano a risarcire: «Soldi per la vita di Giulio»

Giulio Giaccio sciolto nell’acido, i due imputati offrono assegni e beni: la famiglia rifiuta tutto

La madre di Giulio Giaccio
La madre di Giulio Giaccio
di Leandro Del Gaudio
Domenica 16 Aprile 2023, 22:54 - Ultimo agg. 18 Aprile, 07:36
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Tre assegni per un totale di 30mila euro, un paio di immobili per un totale da 120mila euro (tra cui anche un garage su cui grava qualche dubbio in materia di condono). E tante scuse per la vita di un ragazzo di 26 anni distrutta senza un motivo, magari una stretta di mano per chiudere una pagina orrenda. Parliamo della morte di Giulio Giaccio, sequestrato da finti poliziotti, ucciso da killer del clan Polverino e sciolto nell’acido. Un errore di persona, commesso da una batteria di assassini per vendicare - era questo il movente - un torto subìto da un boss detenuto.

Una vicenda che oggi attende l’inizio della prima udienza in Tribunale a Napoli. Ed è proprio in vista dell’appuntamento in aula fissato per domani (gup Giovanniello), che i due imputati provano a giocare una mossa dettata dall’esigenza di sfuggire a una possibile condanna all’ergastolo: hanno scritto all’autorità giudiziaria e agli avvocati dei tre parenti di Giulio Giaccio che si sono costituiti parte civile nel corso del processo. E avanzano un’offerta risarcitoria. Anzi, a leggere la proposta formalizzata dai legali di Salvatore Cammarota e Carlo Nappi, i tre assegni e i due beni immobili andrebbero considerati «a titolo di integrale risarcimento del danno materiale e morale patito». 

Come a dire, bastano tre assegni e un paio di beni immobili, per risarcire la violenza subita, per chiudere i conti con una famiglia colpita 23 anni fa da un lutto assurdo, per anni coperto da silenzi, omissioni, finanche bugie pilotate ad arte per screditare una giovane vittima estranea alle logiche della camorra. Ma si è trattato di un’istanza respinta sul nascere dai tre parenti del ragazzo ucciso, come si legge nella pec firmata dal penalista Alessandro Motta, uno degli avvocati costituito parte civile. Scrive il legale, per conto dei suoi assistiti: «In qualità di Rosa Palmieri, Rachele e Domenico Giaccio, preso atto che gli assistiti hanno inteso comunicarmi la loro decisione di non accettare tale offerta, dal momento che essi confidano esclusivamente nelle determinazioni dell’autorità giudiziaria, all’esito del processo penale de quo. Per questo motivo, l’offerta “reale” formulata non può trovare accoglimento». Spiegano oggi i parenti: «Chiediamo giustizia per chi ha spento il sorriso di Giulio». 

Sono state le indagini dei pm Mariella Di Mauro (oggi procuratore aggiunto a Napoli nord) e Giuseppe Visone (titolare delle indagini nel feudo dei Polverino), a riaprire il caso e a sviluppare una pista investigativa che ha spinto alcuni mesi fa il gip Linda Comella a firmare gli arresti di Salvatore Cammarota e Carlo Nappi, in uno scenario investigativo in cui compaiono almeno altri tre nomi attualmente al vaglio della Procura. 

Un ex cold case risolto a distanza di 23 anni, anche grazie alla testimonianza dei pentiti Roberto Perrone (ex uomo di fiducia del boss Giuseppe Polverino ‘o barone), Giuseppe Simioli e Biagio Di Lanno, che hanno confermato una verità essenziale e agghiacciante al tempo stesso: si trattò di un errore di persona, Giulio fu ucciso al posto di un altro, per una svista da parte del filatore, dell’uomo che avrebbe dovuto indicare la presenza dell’uomo da uccidere.

Era il 30 luglio del 2000, in zona Contrada Romani a Pianura, quartiere ovest di Napoli, quando l’operaio 26enne venne prelevato e sequestrato da finti poliziotti.

Ha spiegato il pentito Roberto Perrone: «Dovevamo risolvere un affare di famiglia, per la volontà di Cammarota di uccidere un tale (si chiamava “Salvatore”), per le avance alla sorella». Un racconto che ha fatto emergere, anche a distanza di anni, riscontri precisi, grazie al lavoro condotto dai carabinieri del comando provinciale guidato dal generale Enrico Scandone.

Drammatica la ricostruzione del delitto. Una volta “arrestato” da finti poliziotti, Giulio provò a far capire di essere un ragazzo lontano dal crimine cittadino. Disse, pensando di parlare ad agenti di polizia: «Non mi chiamo Salvatore, sono un operaio, i miei genitori lavorano, siamo persone oneste...». Non gli credettero. Secondo il racconto di Perrone, a uccidere Giulio fu un soggetto oggi a piede libero: «In auto - spiega il pentito - gli disse di abbassare la testa sulle gambe, per poi sparargli alla nuca». Poi il corpo del ragazzo fu sciolto nell’acido e ci fu addirittura chi polverizzò i suoi denti a martellate, per far sparire ogni traccia della sua vita. Ventitrè anni dopo quell’orrore, c’è chi prova la mossa risarcitoria: tre assegni da diecimila euro, due immobili, per un totale di 150mila euro. Un tentativo di riscatto morale o una strategia per strappare attenuanti e sfuggire all’ergastolo? Facile immaginare che la Procura, dopo il no della famiglia al risarcimento, voglia vederci chiaro sull’origine dei soldi messi sul tavolo della giustizia. 

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