Pesche, albicocche, pere: a Napoli prezzi pazzi e poco sapore

La raccolta ridotta e i rincari del 40%

Mercato
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di Francesco Vastarella
Venerdì 18 Agosto 2023, 11:12 - Ultimo agg. 19 Agosto, 07:50
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Cara, anzi carissima, brutta e senza sapore, marcia di frigorifero dopo giri infiniti tra ortomercati di mezza Europa e commissionari esosi. Mai peggio di così. Frutta di stagione a peso d'oro e si finisce spesso per buttarla perché marcisce in frigorifero o perché proprio non riesce ad andar giù. Pesche a pasta bianca, percoche (pasta gialla) e nettarine fino a cinque euro al chilo, albicocche dai 2,50 e 3,50 euro per chilo, prugne nostrane introvabili perché lasciate sugli alberi, il record è delle ciliegie arrivate a quota 9,50 euro, quasi tutte straniere ma spacciate per italiane dopo la distruzione per maltempo del 70% del raccolto nostrano.

«Offerta speciale, un chilo di nettarine a 4,98 euro», quasi una beffa il cartellino esposto in un ipermercato della provincia due giorni fa.

Una catastrofe per l'economia agricola in provincia di Napoli, un buco nero dopo gli ultimi decenni bui. Colpa di un mercato internazionale impazzito ma anche effetto del cambiamento di clima, delle gelate, del maltempo che ha falcidiato interi frutteti.

«Dopo un'annata così c'è da aspettarsi un ulteriore abbandono delle colture intensive di frutta tradizionale come pesche, albicocche, prugne e susine», lancia l'allarme la neopresidente provinciale Coldiretti, Valentina Stinga. Timore che conferma il suo vice, Domenico Sabatino, imprenditore nel campo della frutticoltura in un'area da sempre vocata per pesche e percoche, quella a Nord di Napoli: «I pochi agricoltori che resistono in aree difficili, come la Terra dei Fuochi, potrebbero essere indotti a mollare definitivamente lasciando spazi liberi a speculazioni o a discariche».

La provincia di Napoli, a parte la fascia costiera sorrentina che ha vincoli paesaggistici, ha subito nell'ultimo triennio una contrazione del 30 per cento delle superfici coltivate. È da choc invece il dato Ispra sul consumo di suolo in provincia, 204,5 ettari, pari al 34,6% in più tra il 2021 e il 2022. Sconcertante se si pensa che si tratta del biennio Covid: spazi divorati da attività edilizie, da infrastrutture, da impianti industriali o artigianali. Un tesoretto verde perduto a dispetto di un patrimonio edilizio storico abbandonato, che stenta a essere recuperato e utilizzato. Per non dire dell'effetto attesa dei Piani urbanistici comunali: chi vorrebbe avventurarsi in una impresa agricola nuova difficilmente trova un terreno da affittare, i proprietari preferiscono lasciarli incolti nella speranza che il suolo cambi destinazione da agricolo a edificabile.

Sui banchi dei fruttivendoli, sulle bancarelle dei mercati rionali o nei supermarket la musica non cambia a leggere i cartellini dei prezzi, al massimo la variazione è in termini di centesimi. A confrontare la lista dei prodotti all'ingrosso per Napoli sull'Osservatorio prezzi del ministero delle Imprese e del made in Italy balza all'occhio il raddoppio che i consumatori subiscono in questi giorni rispetto al prezzo all'ingrosso. «Sia chiaro, del prezzo all'ingrosso già alto entra poco nelle tasche dei produttori che pagano trasporti, confezionamento, costi di coltivazione e raccolta», insiste Sabatino. La beffa viene anche dal fatto che guardacaso in quella che fu la patria di pesche gialle e percoche ora le più care sono le spagnole: all'ingrosso si parte da 1,6 euro al chilo e al dettaglio, come accennato, fino a 5 euro.

Le eroiche piccole imprese agricole rimaste in provincia di Napoli sono costrette a dimenarsi tra forniture a cooperative, mercati all'ingrosso, differenziazioni di bellezza e pezzatura per Napoli e per il resto dei comuni. Che cosa vuol dire? Da sempre i produttori agricoli del Napoletano sono abituati a confezionare in un modo la frutta destinata ai negozi del capoluogo e in un altro quella per destinazioni diverse. «Questo incide sui prezzi e in qualche modo compensa chi ha della buona merce. In questo periodo però incidono anche altri fattori, come i consumatori fuori città per le vacanze», spiega Sabatino. E che cosa succede? Succede che i coltivatori sono costretti ad avventurarsi sugli ortomercati affidandosi alla fortuna.

Rispetto a dieci anni fa è tutto cambiato nei delicati equilibri dei mercati specializzati della frutticoltura. Giugliano, un tempo polo nazionale estivo dell'ingrosso, è ormai in agonia, uno scheletro semivuoto che lo stesso Comune ha in progetto di trasformare parzialmente in centro sportivo. Tre anni fa ha chiuso per inadeguatezza strutturale quello di Aversa, in una altalena di tentativi di riattivazione senza effetti sugli equilibri commerciali della zona. E così molto o tutto finisce a Fondi, mercato laziale principe, polo collegato con la Sicilia e la Spagna, finito anche in inchieste sull'agromafia. Può quindi succedere che dopo essere partita per Fondi da Napoli o dal Casertano la frutta nostrana ritorni a casa con costi moltiplicati.

Strano destino quello della frutticoltura a Napoli. Negli Anni 70 e 80 fu al centro delle polemiche per l'uso massiccio di pesticidi e per il surplus di prodotti che finivano al macero tra mille truffe. Oggi gli agricoltori si sono adeguati. «La nostra è una agricoltura per legge quasi biologica che ci costringe a fare fronte alle insidie - spiega Sabatino - del cambiamento climatico, degli effetti del caldo anticipato o del freddo tardivo. I trattamenti chimici sono ridotti mentre fuori dall'Ue ci sono paesi che trattano con pesticidi da noi proibiti. Costi esorbitanti per i nostri coltivatori, margini di guadagno minimi, prezzi ingiustificabili per i consumatori. Effetti perversi del mercato e del clima, signori».

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