Covid a Napoli, il racconto di Ludovico: «Tra la vita e la morte per 15 giorni, salvo grazie ai medici del Cotugno»

Covid a Napoli, il racconto di Ludovico: «Tra la vita e la morte per 15 giorni, salvo grazie ai medici del Cotugno»
di Ettore Mautone
Giovedì 4 Marzo 2021, 12:00 - Ultimo agg. 16:01
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«Questo virus l'ho preso in famiglia. Stavamo tutti molto attenti ma non è bastato. Sono l'unico che si è ammalato e sono finito nella rianimazione del Cotugno diretta da Fiorentino Fraganza. Un'esperienza unica, molto dura ma anche la consapevolezza che questa è un'eccellenza della Sanità campana». Ludovico Furente ha 64 anni, è di Pianura. Da qualche anno ha perso il lavoro (era un addetto alle slot machine di un'azienda poi fallita). Dopo due anni di cassa integrazione gli è toccato il Covid e ora, dopo un mese di ospedale e due settimane in rianimazione, vive i primi giorni di degenza libero da tubi e respiratore. Sta guarendo ma se l'è vista brutta. Appena ha lasciato la rianimazione ha scritto una lettera di suo pugno. Una testimonianza che fa riflettere. 

Cosa c'è scritto nella lettera?
«Si dice che ogni persona abbia un angelo custode, a me il paradiso ne ha concessa tutta una schiera, esseri che oltre al camice hanno anche una luce bianca che ho percepito nel momento in cui ne avevo più bisogno.

Pur protetti da caschi, tute, stivaloni, moderne armature, mi hanno curato e anche reso la vita in ospedale più lieve. Questo ho scritto».

Come è iniziata?
«A fine gennaio, con la febbre, a casa. Dopo qualche giorno il tampone, la visita del medico, ho chiamato anche il 118. A un certo punto desaturavo e sono dovuto correre in ospedale. Quando sono arrivato mi hanno rivoltato come un calzino. Sono stato qualche giorno in una stanza con un altro paziente. Stavo malissimo. Non mi sono mai alzato dal letto. Poi in rianimazione».

L'hanno intubata?
«No. In rianimazione ci sono anche persone gravi ma non intubate. Però quasi non capivo nulla. Ero stordito e confuso. Mi alimentavano con delle sacche. Avevo 24 ore al giorno una maschera a tutta faccia ad alti flussi».

Quanto tempo è rimasto lì?
«Quindici giorni. Il personale è stato veramente eccezionale. Mi commuovo a pensarci. Gentili, disponibili, delicati e discreti con un malato che non può fare nulla da solo».

E la famiglia?
«Siamo uniti, ho una moglie e tre figli. Due vivono insieme a Barcellona, uno è pubblicitario e l'altro lavora in un grande magazzino. Il terzo è in polizia a Milano. Bravi figli. Erano tornati per via del Covid ed erano con me a casa. Io vivo un periodo di difficoltà a causa della perdita del lavoro. Tiriamo avanti. La prima cosa è la salute».

Aveva altre malattie?
«No, nessuna. In rianimazione ogni tanto passava una barella con un sacco tipo sarcofago. Davanti alla porta li vedevo quei morti ma in quei frangenti per farsi forza si pensa a vivere».

Come ha preso il virus?
«Non me l'aspettavo, siamo molto attenti. Non riesco nemmeno a immaginare come sia accaduto. Qualcuno asintomatico in famiglia forse».

Cosa pensa di questa malattia?
«Bisogna fare molta attenzione. Non si può scherzare. È una roulette russa. Se la si prende in una forma grave c'è il rischio che non si torna a casa. Ho visto morire persone in rianimazione. E ritengo di essere fortunato a poterlo raccontare».

Cosa ricorda con piacere?
«L'umanità delle cure: non c'era giorno che attraverso la vetrata non mi salutassero bussando per sapere come mi sentivo. Grande professionalità. Quella del Cotugno è un'eccellenza che dovrebbe diventare un modello anche per altri ospedali. Ricordo l'attenzione, la delicatezza, le cure mettendo a rischio la propria vita».

Cosa sente di dire a chi non sa cosa sia un reparto Covid?

«Bisogna dire ai i giovani che devono fare molta attenzione come lo dico ai miei figli». 

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