Piazzetta Aldo Masullo a Napoli, domani la cerimonia: una riflessione inedita del filosofo

Il filosofo Aldo Masullo nella piazzetta del Vomero, giugno 2016
Il filosofo Aldo Masullo nella piazzetta del Vomero, giugno 2016
Maria Pirrodi Maria Pirro
Giovedì 8 Luglio 2021, 17:59 - Ultimo agg. 29 Gennaio, 15:38
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Il filosofo si alza per cercare un libro. Intorno agli scaffali colmi, i pensieri lo seguono giù dal divano come un'ombra appuntita. Un velo di tristezza copre il cuore gonfio dei suoi 90 anni, ma Aldo Masullo lo strappa con forza, poi si lascia andare a parole come sospiri. «Mia moglie ebbe un cancro al cervello, fu operata, andava avanti a furia di terapie senza prospettiva e, nella camera accanto a quella in cui lei soffriva, afflitta dalla malattia terminale, una mattina riunii i miei figli per discutere se consentire che i medici continuassero inutili cure o lasciare che, semplicemente, la sedassero».

Quanto restano attuali queste parole, trascritte solo oggi, nell'Italia che si discute di eutanasia, libertà di vivere o morire, e a Napoli alla vigilia della cerimonia fissata per domani alle 12. In «piazzetta Aldo Masullo». Un luogo vuole custodirne la memoria. Per ricordare tutto, la commissione Toponomastica del Comune di Napoli intitola al grande filosofo, scomparso un anno fa all'età di 97 anni, lo slargo che si trova non lontano da casa sua, tra l’attuale piazza Fuga e via Cimarosa, al Vomero: il sindaco Luigi de Magistris e l’assessore Alessandra Clemente si sono fatti interpreti del forte movimento culturale, civico e istituzionale a sostegno dell'iniziativa promossa dalla libreria Iocisto con il direttore Alberto della Sala e la giornalista Titti Marrone, che ha coinvolto oltre mille sottoscrittori solo nell’ultimo appello.

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Tra i primi firmatari, Nino Daniele e Maurizio De Giovanni, poi l’adesione di tante anime della città, come Toni Servillo, Michele Campanella, Marisa Laurito, Roberto Esposito, Lorenzo Marone.  Ed è qui, ai piedi di una scala affollatissima che, nel giugno del 2016, l'intellettuale aveva tenuto una straordinaria lezione sull’amore. L'occasione per concordare un appuntamento, qualche tempo dopo, nel suo appartamento in viale Michelangelo e proseguire la riflessione.

Ricominciando dal racconto dalla sua storia più intima e universale. Quindi, dalla malattia della moglie e la decisione sulle cure.

«Fu una scelta non solo emotiva, ma suscitata dalla ragione appassionata che rende umana la vita. Perché, per dirla con Karl Marx, un pensatore libero deve “prendere le cose alla radice”. E, questa radice, non attecchisce né nella casuale identità biologica di ciascuno, né nella più o meno complicata macchina della società, come una qualsiasi forma al mondo. L'umanità di ciascuno è decisa dalle braccia, dal calore, dal sorriso di chi, madre naturale o altri, per primo, l’ha accolto, lo ha stimolato a parlare, lo ha indotto a uscire dal mutismo e a rispondere, entrando nel gioco della relazione. Difatti, la morte è il contrario della nascita, non della vita. Ed eutanasia significa, letteralmente, buona morte. Senza sofferenza. Senza avere la disperazione atroce del salto nel vuoto di Primo Levi e di Mario Monicelli».

Al centro c'è il rapporto tra l’uomo e il dolore. E il dolore può diventare lacerante. Intollerabile, quando si sa che al di là non c'è che la morte: in questi casi, con burocratico pudore, la malattia si chiama terminale. E non resta che il desiderio d'affrettarsi: la liberazione grazie alla morte. 

Lo spiega bene il mito di Chirone, il centauro ferito inguaribilmente da una freccia di Ercole che gli procura una sofferenza invincibile. Lui scambia la sua immortalità con Prometeo: il dolore si rivela così potente, nel suo terrificante aspetto che, perfino nel fantastico bilanciamento con l'eternità, il suo peso risulta il più forte. Accade perché il dolore fisico distrugge la comunicazione, ricaccia l'uomo nel suo isolamento d'individuo, nel vissuto primitivo della sua animalità. Ed è inutile obiettare che presidii medici e cure palliative sono tali da renderlo sopportabile, perché «il dolore non è solo sofferenza fisica, bensì e ben più umiliazione della vita». 

Si vede questo nella fotografia di dj Fabio, che ha chiesto e ottenuto, il 27 febbraio 2017, il suicidio assistito con Dignitas in Svizzera. Un Cristo disperato. Terribile dev’essere la pena di non potersi muovere, costretto in un corpo che è la bara di se stesso, esposto all’indispensabile manipolazione d’altri per ogni suo bisogno, cieco e quasi muto, gli occhi ridotti a un’unica ininterrotta implorazione. Paradossalmente, il bisogno vitale di quest’uomo diventa la morte. E il problema non è, se egli abbia il diritto di morire, ma chi mai, e in nome di quale legge, magistrati preti parlamenti chiese, sapienti inumani e ignoranti saccenti, abbiano il diritto di negarglielo, impedendone l’esecuzione, imponendo alla vittima la più terribile delle torture. Qui s’impone una legislazione che garantisca a ogni infelice come il dj Fabo la libertà, l’estrema, di liberarsi da un morire che a lui sembra non finire mai.

Il suicidio rimane, però, uno dei temi più controversi nella riflessione umana. Persino Giacomo Leopardi, il poeta del dolore universale, ha escluso l'ammissibilità del gesto estremo, a differenza di miti e personaggi del mondo antico, tra cui c'è stato qualcuno, e non uno, che lo ha considerato un diritto o addirittura un dovere. E la diretta esperienza resta nella carne, oltre che nel cervello: una responsabilità nella sua pienezza. Chi fa questioni di scrupolo religioso, giuridico o sociale, usa argomentazioni che appartengono al mondo dei vivi. La vera questione è il passaggio da una forma che continua a potersi cambiare a ciò che non si può già cambiare. Ma come si fa a dire a una persona che soffre in maniera insopportabile: fermati e continua? 

«Tra i due estremi, credo - la conclusione del filosofo - si muova il problema del suicidio, oltre la questione del tempo. L'esperienza della scelta, al contrario del gesto d'impeto, è data da questa esplosione della ragione portata ai limiti della capacità di autogovernarsi e quindi, direi, che è un tragico cedimento della ragione stessa. Nel suicidio assistito c'è un progetto, spesso caldeggiato e carezzato a lungo. Legalizzarlo in Italia è civile, ma non posso ridurre razionalmente l'esistenza in termini matematici». 

Una pausa per dire: «Io non ho paura della morte, perché non mi spaventa in sé, ma mi fa rabbia pensare di andarmene senza aver capito niente. Ho compreso poco fino a oggi, qualche cosetta. Per esempio, che la vita stessa è sotto il segno della relatività, e anche l'amore è un sentimento mutevole, e l'odio sparisce e allora il nemico diventa avversario  Lo dico sempre ai giovani, affinché non vengano accecati dalla tendenza ad assolutizzare, che distrugge gli uomini. Ancora una volta: tutto è relativo, si cercano solo vie di compromesso. In fondo, nel suicidio assistito non resta che questo». 

Pensieri mischiati a emozioni.

Lui l'aveva fermata per strada, a Nola, e sposata subito dopo la guerra; da tempo la conosceva di vista e lei era bella, d'una forza sottile e innamorata. La voleva e l'aveva avuta accanto sempre, nonostante certe sue inquietudini. Poi la malattia aveva spinto l'amore nel senso più nobile. «Ma, vista l'agonia della madre e la prevedibile non guarigione, i miei figli era dell'idea di non somministrarle altri farmaci. Fui io che non ebbi il coraggio, proprio io che l’amavo».

Lei morì non molto tempo dopo. «E allora mi parve che un essere umano non potesse assumersi il diritto-potere di trascinarne un altro dal mondo in cui tutto può ancora accadere, persino il miracolo, al mondo dove, viceversa, non c'è più modo di tornare indietro. Perché vivere significa soffrire, ma anche godere di una possibilità. La morte rappresenta il nulla irrevocabile». 

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