Erri De Luca e i murales della camorra: «Quei ragazzi non sono né miti né eroi, intellettuali superficiali»

Erri De Luca e i murales della camorra: «Quei ragazzi non sono né miti né eroi, intellettuali superficiali»
di Valentino Di Giacomo
Domenica 4 Aprile 2021, 12:00 - Ultimo agg. 5 Aprile, 09:19
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Forse oggi la città può raccontarla meglio di altri chi qui non ci abita più. Un «Napolide» ritiratosi in una campagna romana e che, però, resta sempre rivolto con gli occhi al luogo natio, in quel vicolo di Montedidio dove tutto intorno oggi si scorgono altri codici e altre usanze fatte pure di murales, altarini e ragazzini che consumano troppo in fretta le proprie esistenze. Erri De Luca evoca spesso una Napoli lontana nel tempo nei suoi racconti, storie intrise di bellezze. Tra qualche giorno pubblicherà con Feltrinelli un nuovo racconto, «A grandezza naturale». La pandemia, le restrizioni, non hanno modificato più di tanto la sua vita nell'ultimo anno: «Abituato a stare da solo e in una casa di campagna - dice - mi sono trovato allenato e privilegiato. Mi sono stupito in un primo tempo di come gli italiani fossero imprevedibilmente disciplinati, su come hanno adottato le restrizioni, con spirito civico. Poi mi sono dispiaciuto del mio stupore: nei periodi inguaiati gli italiani si comportano bene storicamente e stoicamente».

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Le sue storie, recuperando ricordi e sensazioni di infanzia, evocano una Napoli che forse non c'è più. Anche una differente criminalità rispetto a quella attuale?
«Lieto che quella Napoli sia stata superata e con essa la più alta mortalità infantile d'Europa, la fame, il lavoro minorile, la sudditanza alla Sesta Flotta degli Stati Uniti che la consideravano una loro Guantanamo.

Napoli secondo il suo nome greco vuol dire città nuova. Fu una profezia, Napoli rinnova le sue condizioni, ma con una potente fedeltà a se stessa, alla sua parlata, ai suoi santi, alle sue cucine. All'età di ragazzo Napoli aveva la sua criminalità organizzata per quartieri, che si occupava del contrabbando delle sigarette. Gli aspiranti camorristi facevano un lungo apprendistato. L'arrivo della droga, dello spaccio, ha fatto una centrifuga delle vite, ne ha accelerato la deriva e la mortalità violenta. Si consuma in fretta la carriera criminale della gioventù abbagliata dal denaro svelto. In un carcere minorile ho percepito che alcuni si consideravano dei sopravvissuti».

Una criminalità che però, ancora oggi, andando in giro per i nostri reportage, viene giustificata con il canonico «piatto a tavola» da dover approntare. Non è una retorica superata?
«Il piatto a tavola lo racconta Eduardo in Filumena Marturano, quando lei ricorda suo padre che le dice che ormai è cresciuta e che non c'è da mangiare. E lei si avvia alla prostituzione. A quella tavola il piatto era vuoto, il digiuno e i pasti saltati dipendevano dalle scarsità mortificanti. Parlare oggi di piatto a tavola rientra nel regime della metafora, il denaro da arraffare serve a dichiarare un'apparenza e un'appartenenza a un ceto. Non scuoto la testa per disapprovazione, suggerisco solo di cambiare metafora. I giovani napoletani hanno per via di promozione, non di scampo, il lavoro all'estero dove misteriosamente si accorgono di avere dentro qualcosa in più di altri coetanei anche loro espatriati».

Oggi i criminali sono esaltati con murales e altarini. I più giovani - come avveniva per la paranza del baby-boss Emanuele Sibillo - prendevano persino a modello gli jhiadisti dell'Isis. In città si è creato un forte dibattito, lo ha seguito?
«La gioventù si procura degli eroi, dei miti. I miei erano dei rivoluzionari, ma senza altarini, si imparavano le loro biografie, i loro discorsi, per approfondire le proprie ragioni. Avere dei banditi per eroi è cosa ripetuta, anche se quegli esempi rischiavano per se stessi, per qualche bottino, non per idee, per qualche fine superiore alle loro vite. Scegliersi un estremista islamico è però balordo perché è il massimo dell'opposto di uno che spaccia droga, fa rapine, estorsioni e via arraffando. È bene che sappiano che l'Isis non li arruolerebbe, anzi li disprezza come concentrato di vita occidentale».

Alcuni intellettuali hanno però difeso queste opere come quella per Ugo Russo ai Quartieri Spagnoli, poi però non si sono presentati alla manifestazione convocata dal papà. Facile mettere una firma, meno partecipare?
«Non mi piace l'uso delle virgolette. La parola intellettuale è per me troppo generica e riguarda chiunque non svolga un lavoro manuale come principale fonte di reddito. Ci sono persone che vengono continuamente interpellate per dire la loro su qualunque argomento di attualità e che sanno bene di non essere oracoli. Esprimono una opinione di passaggio. Diverso è il caso di difendere delle convinzioni, dove allora si è tenuti a consistenza e profondità di intenti, per i quali si viene giudicati».

Non si rischia di santificare i criminali, pur se giovanissimi, rendendoli così un modello per altri ragazzini?
«Un ragazzo commette un reato per scarsa immaginazione delle conseguenze, per impulso, per mettersi in mostra coi coetanei, per presunzione d'impunità. Lui l'ha pagata cara al più alto prezzo. Che la sua cattiva sorte possa essere di scongiuro per altri ragazzi».

É davvero una livella la morte? A Forcella da un lato ci sono la scuola e l'altarino dedicato alla giovane vittima di camorra, Annalisa Durante, dall'altro quelli in omaggio ai camorristi come Sibillo. Così passa il messaggio che davvero tutte le morti sono uguali?
«Quelle morti sono evidentemente diverse e opposte, mentre sono uguali le morti sul lavoro, in incidenti stradali, per naufragio di barconi. Quelle due morti escono dall'anonimato e rappresentano due giovani destini dentro Napoli».

«Omicidio di Stato», «sottoproletariato della camorra»: sono alcune delle frasi pronunciate dai giovani dei centri sociali alla manifestazione per Ugo Russo. Nono sono cliché oggi inservibili e, soprattutto, non sono parole che separano nuovamente le «due Napoli» raccontate da Domenico Rea che non si parlano e se si parlano non si capiscono, anziché fare fronte comune?
«È una domanda illuminista. I linguaggi quando si riducono a gergo non possono comunicare, vogliono invece delimitare un territorio, rinchiudere fatti dentro definizioni che escludono invece di coinvolgere. I fronti comuni avvengono in momenti di gravi oppressioni e trovano subito le parole che uniscono».

Che sensazioni le provoca oggi la città guardandola dal suo angolo di mondo?
«Napoli si è trasferita dentro di me con tutto il golfo dal Vesuvio a Ischia. È la mia geografia interiore, tatuata dalla parte a carne della pelle. I miei nervi sono di Napoli, i miei scoppi di risa, le malinconie, Napoli è la mia causa e io sono uno dei suoi molteplici effetti. Napoli resta sede di ogni predicato, dalla bestemmia all'entusiasmo, in questo è inafferrabile, irriducibile a definizione, perciò semplicemente leggendaria, come di luogo che si affranca da ogni verifica».

Il Napolide un giorno tornerà a casa?
«Non riabiterò una città, neanche un villaggio. Ho imparato altre usanze».

Vivendo nella sua campagna, lontano dalle folle, si vaccinerà?
«Mi vaccinerò, ho prenotato, per diritto d'età. Per me è un dovere civile più che sanitario». 

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