«Io speriamo che me la cavo» 30 anni dopo un docufilm: «Così sono cambiate le nostre vite»

«Io speriamo che me la cavo» 30 anni dopo un docufilm: «Così sono cambiate le nostre vite»
di Alessandra Farro
Venerdì 5 Febbraio 2021, 09:45
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Vincenzino che portava i caffè al bar, Nicola che mangiava sempre brioche, Tommasina che vendeva le cape d'aglio al mercato, Totò con la sua poesia sporca e tutti gli altri bimbi protagonisti di «Io speriamo che me la cavo», film cult degli anni '90 diretto da Lina Wertmüller, si raccontano dopo trent'anni dalla pellicola ad Adriano Pantaleo, Vincenzino, nel documentario «Noi ce la siamo cavata», che l'attore sta producendo insieme a Francesco Di Leva e Alex Marano (Terranera produzioni) per la regia di Giuseppe Marco Albano (David di Donatello per il miglior corto). Le telecamere seguono Pantaleo, ormai trentasettenne, in giro per l'Italia alla ricerca dei suoi compagni di classe di Corzano, scoprendo quale sorte sia toccata ad ognuno degli alunni di Sperelli (Paolo Villaggio).


Perché adesso?
«In questi anni è successo che qualcuno mi chiedesse di fare qualcosa di inerente al film, ma non ne sentivo mai la necessità. Con la maturità, diventando padre, con l'anniversario dei 30 anni dall'uscita del film (girato nel 1991 e uscito nel 1992), con l'Oscar onorario vinto da Lina l'anno scorso, ho sentito che fosse arrivato il momento di onorare quel capolavoro e di rispondere a tutte quelle persone che, ancora oggi, mi riconoscono come Vincenzino e mi chiedono che fine abbiano fatto gli altri ragazzini del film».


E che fine hanno fatto?
«Alcuni non li ho mai persi di vista, li ho sentiti e frequentati, per esempio Ciro Esposito, che interpretava il teppistello Raffaele Aiello, e Dario Esposito, che era Gennarino, il bambino che dormiva in classe, anzi, con lui siamo praticamente quasi parenti, perché le nostre madri fecero amicizia sul set e oggi si è sposato con mia cugina ed è un militare. Altri, invece, li avevo persi di vista».


Vi ritrovate per questo progetto.
«Sì, il docufilm si muove alla ricerca di questi bambini, proprio come se si trattasse di una classica rimpatriata della classe delle elementari.

Io, come un Virgilio, mi muovo in giro per l'Italia ripercorrendo le loro strade e facendomi raccontare i percorsi che hanno intrapreso. Non cerco solamente gli attori, ma anche i protagonisti dietro le quinte del film: Ciro Ippolito, che ebbe l'idea di acquistare i diritti del best seller di Marcello D'Orta, Stefano Amatucci, il primo assistente alla regia, Andrea Longo, lo sceneggiatore, ad oggi scrittore, lavora anche al documentario. Insomma, ho girato parecchio, Torino, Piacenza, Roma. Il film ha due stili: una parte dedicata alle interviste più istituzionali e un'altra dedicata agli attori-bambini, quasi un on the road in cui le telecamere riprendono il momento esatto in cui ci rincontriamo».


Quindi, gli altri che fine hanno fatto?
«Alcuni hanno avuto storie meno fortunate: Luigi L'Astorina, Totò, e Salvatore Terracciano, Salvatore, hanno avuto trascorsi di carcere, tra l'adolescenza e l'età adulta, ma oggi sono entrambi padri di famiglia sposati, se la sono cavata, con qualche piccola défaillance durante il percorso. Mario Bianco, Nicola, che amava le brioche, oggi conduce una vita legata ancora alle brioche: ha aperto due cornetterie a Torino ed è diventato il re del cornetto di notte. Poi, c'è Carmela Pecoraro, Tommasina, con altre esperienze attoriali: è stata la bambina in L'amore molesto di Martone e per due stagioni, fino ai 15 anni, è stata tra le protagoniste di Un posto al sole, poi ha deciso, quasi inconsapevolmente, di non continuare questo lavoro, ma lo ricorda con amore e malinconia, come qualcosa che avrebbe voluto portare avanti, nonostante oggi sia felice, madre di tre bimbi. Ci ha confessato che, tornando indietro, non avrebbe mollato e ce l'avrebbe messa tutta per continuare».


E su di lei che impatto ha avuto questo film?
«Ha indirizzato la mia vita. È grazie a questo film che ho cominciato a intraprendere la carriera da attore. Il documentario è una riscoperta anche per me, c'erano tante cose che non ricordavo bene, ero piccolo, avevo 7 anni. La prima persona che ho intervistato è stata Lina, con cui abbiamo discusso anche di come sia cambiato il cinema in questi 30 anni».


Quando lo vedremo?
«Il documentario si chiude con una vera rimpatriata, una cena in cui, tutti insieme, ci raccontiamo su chi siamo e chi eravamo e guardiamo la premiazione agli Oscar di Lina. Finiremo, si spera, le riprese a marzo. Da lì, cercheremo di proporlo il prossimo autunno».

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