Shoah, le storie dei napoletani deportati: «Viaggio dell'orrore fino ad Auschwitz»

Nove ebrei provenienti da Napoli in un convoglio lungo otto metri e largo due

La presentazione libro di Nico Pirozzi
La presentazione libro di Nico Pirozzi
di Ugo Cundari
Lunedì 22 Gennaio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 23 Gennaio, 07:31
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Oltre a essere stata la prima città europea a ribellarsi ai nazisti, cacciandoli, Napoli è stata una delle poche città occidentali, insieme a Copenaghen e a Sofia, che pur essendo una grande metropoli con una comunità ebraica durante l'occupazione nazista, nel suo territorio nessun ebreo fu arrestato o deportato. Tra i primati negativi c'è quello di avere ancora un grande spazio che porta il nome di un fascista, piazzale Vincenzo Tecchio, «un'aberrazione in una città medaglia d'oro al valor militare per l'insurrezione spontanea contro i tedeschi. Spero che un giorno il piazzale cambi nome, così come spero non sia più dedicata a Vittorio Emanuele Terzo, firmatario delle leggi razziali, la biblioteca nazionale. Non è difficile, l'abbiamo già avuta vinta con la strada dedicata a Gaetano Azzariti, che fu presidente del Tribunale della razza, che poi è stata chiamata via Luciana Pacifici, la bimba napoletana di otto mesi denunciata a Milano e deportata ad Auschwitz insieme a tutta la sua famiglia» ha detto ieri il giornalista Nico Pirozzi in occasione della presentazione del suo “Italiani imperfetti” (youcanprint, pagine 212, euro 20) nella sede della comunità ebraica di Napoli in via santa Maria a Cappella vecchia.

Il libro racconta le storie dei napoletani deportati, in particolare della famiglia Procaccia, della quale partirono verso il campo di concentramento, oltre la piccola Luciana, che ad Auschwitz non arrivò mai perché morì durante il viaggio, il cuginetto Paolo Procaccia di quattro mesi più grande, i genitori Loris ed Elda di 33 e 24 anni, gli zii Aldo (le cui le tracce si persero poco dopo l'immatricolazione), Milena e Sergio (morto 32 giorni dopo la liberazione) di 39, 28 e 33 anni, e i nonni Amedeo e Jole di 62 e 59 anni.

Nove ebrei provenienti da Napoli, la città dalla quale erano fuggiti poco prima dell'arrivo degli Alleati nell'agosto 1943 a causa dei devastanti bombardamenti. «Viaggiarono insieme ad altre quaranta persone in un convoglio lungo otto metri e largo due per sei giorni a partire dal 30 gennaio 1944. All'epoca denunciare un ebreo rendeva cinquemila lire, una ebrea tremila, un bambino millecinquecento. Le denunce furono formalizzate poco prima di Natale, così i solerti individui poterono permettersi una cena più lauta». Se oggi esiste il Napoli lo si deve molto alla lungimiranza, e alla generosità, di Giorgio Ascarelli, di una antica famiglia ebrea. Nel '29, a sue spese, fece costruire al rione Luzzatti un nuovo impianto sportivo, il “Vesuvio”, dove avrebbe giocato la squadra di calcio del Napoli, che prima di lui si chiamava Internaples. Ascarelli morì qualche giorno dopo l'inaugurazione, il 23 febbraio 1930 e lo stadio prese il suo nome, per poi perderlo per disposizioni fasciste, a causa delle origini ebraiche di Ascarelli, ed essere ribattezzato Stadio Partenopeo, poi distrutto durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Insieme alla storia delle famiglie ebree napoletane colpite dalle leggi razziali, oltre a quella Procaccia anche la Pacifici e la Molco, Pirozzi racconta la Napoli del ventennio nero, della guerra e dei bombardamenti a tappeto, e «quell'Italia che si è sempre rifiutata di fare i conti con il proprio passato, lasciandoci in eredità una narrazione falsa e fuorviante, che salvo rare eccezioni ha ben poco in comune con la realtà dei fatti». 

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