Venere degli stracci in fiamme a Napoli, Pistoletto: «Come un'autocombustione del lato peggiore dell'umanità»

Michelangelo Pistoletto
Michelangelo Pistoletto
di Giovanni Chianelli
Giovedì 13 Luglio 2023, 09:09 - Ultimo agg. 14 Luglio, 10:53
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«Come un'autocombustione del lato peggiore dell'umanità». L'incendio alla "Venere degli stracci" colpisce tutti, ma soprattutto il suo autore: «In qualche modo è un atto di guerra» dice Michelangelo Pistoletto. Eppure l'artista biellese, 90 anni, tenta di far prevale la ragione al dispiacere e a non prendersela con la città. Si sente che è ferito, «l'opera serve proprio ad evidenziare il contrasto tra il degrado della società e la bellezza salvifica. Napoli è quella Venere, ma purtroppo ha ancora troppi stracci», ma prova a recuperare una speranza: «Se l'opera è distrutta non lo è il suo significato: l'incendio è l'occasione per fare appello alla parte migliore di ognuno di noi, anche di quella dei colpevoli. Ancora di più se si tratta di un clochard che ha fatto un atto di disperazione o di distrazione riflette ancora di più il messaggio della mia opera», riflette. Ora, tuttavia, la versione monumentale della sua opera - ideata nel 1967 e immaginata in formato maxi per l'area di piazza Municipio - è un cumulo di cenere e Pistoletto non sa se verrà rifatta: «La decisione non spetta a me».

Pistoletto, la sua prima reazione dopo il rogo che ha distrutto la sua opera?
«Stupore.

Sto cercando di mettere insieme l'emozione e la ragione. Per ora prevale l'emozione, l'amarezza, ma la ragione deve lavorare e sento che inizia a farlo. Emozione e ragione coesistono sempre, la mia "Venere" rappresenta d'altra parte proprio un dualismo simile. Ma la dualità deve trovare un accordo, un bilanciamento».

E questa volta la bilancia da che parte pende?
«Quella sbagliata, direi: è come un'autocombustione del lato peggiore dell'umanità».

È la più grande versione della "Venere": un boccone troppo ghiotto per i teppisti?
«L'ho immaginata monumentale perché doveva essere in proporzione con il luogo in cui è stata collocata, così vasto e pieno di luce, così dotato di aria e vedute. Ma non mi pare che le dimensioni siano una tentazione più che in altri casi».

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Forse doveva essere più sorvegliata.
«In questo non entro, non ho mai avuto parte in certe decisioni».

Si è fatto un'idea dei colpevoli?
«Davvero non riesco a capire cosa abbia spinto a fare questa azione, potrebbe essere opera di un ubriaco o di qualche teppista. No, non intuisco neanche la ragione. Si deve fare una ricerca ed è compito delle autorità».

Si dice che l'azione sia frutto di una competizione sui social: provocazione, stupida bravata, qualche messaggio?
«So che è chiaro che la "Venere" si presta ad essere avvicinata dalla gente, è concepita per questo: è quasi come un essere umano che si espone senza difese, come siamo tutti e soprattutto chi è povero. In questo senso l'atto è molto grave, è una violazione molto forte anche se è avvenuta senza particolari intenti».

Paradossalmente l'opera parla proprio del rapporto tra bellezza e miseria.
«Parla, da un lato, della parte degradata della nostra società e l'umanità sono gli stracci. Dall'altra parte c'è la venerabilità dell'arte, perciò il soggetto si presta a varie letture. Voglio dire che la "Venere", oltre a simboleggiare la bellezza, è metafora dell'area spirituale di ognuno di noi, quella che si presta all'adorazione o a essere adorata. Ma l'estetica informa l'etica: l'arte e il bello sono i fattori di rigenerazione della parte stracciata delle persone, sono l'antidoto al detrito».

Ma stavolta il messaggio non ha funzionato.
«Stavolta hanno prevalso gli stracci, ha vinto la guerra, che è uno degli obiettivi contro cui combatte la bellezza e contro cui ho ideato l'opera: un gesto di distruzione dell'arte è simile a un conflitto, lo riassume in ogni tratto. Ma sento che il mondo si possa mettere dalla parte del risanamento, tenendo presente che è inestinguibile, così come il suo contrario. La relazione tra sublime e misero crea armonia».

Era mai capitato che una sua opera venisse vandalizzata?
«No, mai».

E ora ce l'ha un po' con Napoli?
«Per carità, anzi, le sono ancora più vicino. Riandando alla metafora della guerra, funziona se si vuole ancora di più: Napoli si trova in una posizione geografica precisa, strategicamente affacciata sulle tensioni del Mediterraneo pur appartenendo a un contesto civile. È una città eccezionale, è Napoli quella "Venere", ma è anche invasa dagli stracci».

Ora che ne sarà dell'opera?
«Ora è distrutta ma non è perso il suo significato, il senso che trasmette continua il suo lavoro. Che in qualche modo può essere potenziato: l'incendio è l'occasione per fare appello alla parte migliore di ognuno di noi, e soprattutto di quelli che hanno aggredito l'opera».

Verrà rifatta?
«Non so, non devo deciderlo io. È una scelta che va concertata con la città dell'arte che ha contribuito alla sua esecuzione».

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