De Magistris, dieci anni con la bandana: da «Ciao Al» alla flotta cittadina, addio al sindaco più longevo

De Magistris, dieci anni con la bandana: da «Ciao Al» alla flotta cittadina, addio al sindaco più longevo
di Antonio Menna
Martedì 19 Ottobre 2021, 07:00 - Ultimo agg. 20 Ottobre, 06:59
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Con dieci anni, quattro mesi, 17 giorni, si è chiuso ieri il mandato del sindaco più longevo che la città di Napoli abbia mai conosciuto. «Finisce una missione durissima», ha detto Luigi de Magistris, lasciando Palazzo San Giacomo. Sì, durissima è la parola giusta. Anche per noi. Si chiude un decennio di pazzi, pazzi tweet; di folli, folli post. Due lustri di annunci, urla, attacchi, pompose dichiarazioni universali, foto in tutte le pose, pugni chiusi, gesti dell'ombrello, scrivanie colme di pulcinella, rivoluzioni al Fiocco di neve, trenini alle feste nei centri sociali, candidature a tutto e poi subito a niente, assalti al mare con le flotte della liberazione, buoni sconti chiamati moneta, la città autonoma che si lamenta dell'abbandono di Roma, la nostalgia neoborbonica e lo sputtaNapoli, le presenze tv quasi fino all'Isola dei famosi, il lungomare prima liberato e poi imprigionato dalle inefficienze, bella ciao, ciao Al, Renzi fattela sotto, Saviano incapace, De Luca fuori legge. Uno zibaldone infinito di lotta e poco governo che ha consumato tutte le già poche energie di una città che a un certo punto per restare in piedi si è distratta, ha guardato altrove, ha cominciato indisturbata a fare da sé, come se sulla locomotiva non ci fosse nessuno, consapevole che dalle istituzioni non sarebbero arrivati risultati ma neppure disturbo, che comunque è già qualcosa. 

La fine di un decennio di mandato del sindaco, per una città, è sempre una svolta, un cambio di fase. Ma questa volta è di più. Cambia pelle, l'amministrazione comunale. È una muta, si smonta anche la scenografia. Si trasforma il lessico istituzionale. Si smantella una grammatica di esercizio del potere. Non poteva essere più diverso, il successore dell'uscente, come a voler passare ben più di un testimone. È un salto d'epoca, da Gigino al professore. Dieci anni ma sembrano cento. Tutto cominciò in maggio, quando si votava in primavera. Era il 2011, c'era ancora Italia dei valori, c'era Di Pietro, c'era perfino la sinistra. Furono proprio loro a candidare l'ex magistrato, eurodeputato, fresco reduce di inchieste giudiziarie in Calabria. C'era ancora Santoro in tv. E de Magistris già amava le telecamere, al punto da costruire proprio in quegli studi una prima connessione sentimentale con l'Italia arrabbiata. Si candidò così a Napoli e con il 27% si lasciò alle spalle il mite Mario Morcone, del Pd, e andò al ballottaggio con Gianni Lettieri, di centrodestra. Rifiutò l'apparentamento col Partito democratico, prendendone comunque i voti, e vinse con il 65%. La festa diede già un annuncio di quello che sarebbe arrivato: la bandana arancione stretta alla fronte, le prime grida da combattimento. In giunta arrivarono assessori come il magistrato Narducci, il docente Realfonzo, altre personalità di primo piano come D'Angelo, Tuccillo, Lucarelli. Ma era solo un giro di giostra. Il sindaco, come Ugolino coi figli, ha divorato i suoi assessori. Trentotto in dieci anni.

Uno ogni cento giorni. Le porte girevoli di Palazzo San Giacomo, con una sarabanda di deleghe che andavano e venivano, tirando dentro a un certo punto la dependance Città Metropolitana. Una sola sopravvissuta, Anna Maria Palmieri, in giunta dal primo all'ultimo giorno. Poi, perfino assessori di pochi mesi, amministratori lampo, neppure il tempo di arredare un ufficio. 

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Il primo ottobre del 2014, quando la delusione per un'amministrazione che non era mai decollata si sentiva forte in città e nei sondaggi, arriva il colpo di genio: trasformare una disgrazia in una opportunità. Per de Magistris, una assurda condanna in sede penale per abuso d'ufficio si trasforma, per la legge Severino, in una sospensione dalla carica per 18 mesi. Il primo cittadino si inalbera: da paladino della legalità a condannato, non ci sta. Si inventa così il sindaco di strada. «Si dovrebbero guardare allo specchio e vergognarsi», dice de Magistris ai suoi ex colleghi. I cittadini solidarizzano, sperimentano un refrain che poi durerà a lungo: non sarà un buon sindaco ma di sicuro è onesto, la condanna è immeritata. Questo intervallo da vittima del sistema fa recuperare consensi a de Magistris, che poi dopo appena 30 giorni viene reintegrato dal Tar e nel 2015 anche assolto in corte d'Appello. Ma il feeling con la città si è ricostruito e si arriva a gonfie vele alle elezioni del 2016. Qui un paio di regali del centrosinistra (primarie da dimenticare) e la replica della candidatura del centrodestra, portano de Magistris alla riconferma. Stavolta le liste sono dodici, al primo turno arriva il 42%, al ballottaggio il 66%. Si apre il Palazzo per la seconda volta. Poco importa che le promesse sono state mancate (differenziata da portare al 70% che invece resta inchiodata intorno al 30, la capitale mondiale del trasporti dove i bus non passano). Conta il sentimento napulitano, e il sindaco qui è imbattibile. Tutto orgoglio partenopeo: la bellezza è merito mio, i problemi colpa di altri. Sono state tante le distrazioni di massa di questi anni. Il Movimento Arancione del 2012, che sostiene Ingroia e la Rivoluzione civile alle politiche del 2013, senza fare neppure il quorum. Il partito DemA (iniziali di de Magistris e anche di Democrazia e Autonomia) che vuole correre per il Parlamento europeo, per quello nazionale, ma alla fine non partorisce neppure la lista alle ultime comunali. E poi gli annunci di candidarsi per la Presidenza del Consiglio, per la Regione Campania, per il Senato, per la Camera, e finire ai piedi dell'arcobaleno, dopo dieci anni di tambureggiamento, e candidarsi alla Regione Calabria (dove tutto cominciò) e non riuscire neppure a strappare un seggio in Consiglio regionale, mentre nella povera amata Napoli, i reduci dei dieci anni zapatisti, sotto la candidatura dell'eroica Clemente, raccolgono poco più del 5% e confermano un malinconico sospetto: abbiamo scassato non era un urlo di gioia ma una profezia. 

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