Napoli e il Coronavirus: la vita a distanza di un metro tra abbracci, baci e spazi troppo stretti

Napoli e il Coronavirus: la vita a distanza di un metro tra abbracci, baci e spazi troppo stretti
di Paolo Barbuto
Giovedì 5 Marzo 2020, 00:00 - Ultimo agg. 06:30
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Abbracci stretti, baci sulle guance, ”inciuci” faccia a faccia a bassa voce e respiri che inevitabilmente si fondono: noi napoletani ci proviamo, ma non siamo capaci di rispettare la distanza di un metro dal nostro prossimo. È questione di cultura, di accoglienza, forse di eccessiva fiducia nell’altro, anche nei giorni difficili del Coronavirus.

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Primo step in metropolitana a metà mattina, finché i vagoni non sono colmi, chiunque sale a bordo cerca di tenersi distante dagli altri; però quando si arriva alla fermata Dante è impossibile stare lontani, praticamente ci si alita addosso. Secondo tentativo in bus, al Corso Umberto, stavolta la distanza riesce ad essere più ampia perché il mezzo è semivuoto e le persone si guardano con sospetto: due donne indossano anche la mascherina, non si sa mai. Il primo impatto con la città che è costretta a tenersi a distanza di sicurezza è straniante: il pensiero di base era che a Napoli nessuno avrebbe fatto caso alle norme del Governo sul metro di rispetto tra individui, invece i mezzi pubblici fanno crollare la teoria, ma solo per poco.

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Bisogna scendere dai mezzi di trasporto e infilarsi dentro la città per scoprire che, in fondo, quel metro di sicurezza per i napoletani è solo “un consiglio” non un obbligo. 

Piazza San Gaetano, la mattina inizia a fare spazio all’ora del pranzo, un uomo di buona stazza individua un amico da lontano, si braccia, attira l’attenzione dell’uomo poi si ferma sorridente e resta in attesa. L’altro si avvicina a grandi passi, due baci bagnaticci sulle guance e un abbraccio d’altri tempi. Si dicono che il tempo è passato troppo in fretta, si chiedono delle rispettive vite: insomma, nessuno sa nulla di quel che è accaduto all’altro, eppure si sono scambiati un mare di “droplet” che potrebbero essere contagiosissime, ma nessuno dei due ci ha fatto caso. 

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Luciano De Crescenzo spiegò mirabilmente la differenza fra popoli d’amore e popoli di libertà: i primi sono accoglienti, avvolgenti, calorosi fino all’oppressione; i secondi sono rispettosi degli altrui spazi, non si intromettono, non si avvicinano troppo. I napoletani, spiegava il compianto De Crescenzo, sono un popolo d’amore, sono “azzeccosi”.  

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La bancarellara in fondo a San Gregorio Armeno ha attaccato bottone con una turista sorridente, le parla della città, dei pastori, delle tradizioni: «Venite che vi faccio vedere una cosa», fa per prenderle il braccio per accompagnarla più avanti ma la turista si ritrae, non gradisce quella vicinanza, non le va di essere toccata. La bancarellara non sorride più, s’è sentita offesa, la turista si allontana senza comprare nulla. La venditrice si sfoga con la vicina di banchetto: «Mammamia e che se pensava chesta? Ca l’ammescavo ‘o culera?», cosa credeva questa? Che le trasmettevo il colera?

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È l’ora del pranzo a Napoli, cioè le 14 passate da un bel po’, le strade del turismo sono semivuote perché l’effetto Coronavirus è devastante, le mascherine sono diffuse tra i passanti ma non sono tantissime, la sensazione è che la maggior parte dei residui visitatori appartenga alla categoria dei popoli di libertà: rispetto e distanza, senza troppe smancerie. Ma per i napoletani, per noi napoletani, accorciare le distanze è una necessità.

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«Secondo voi uno si viene a prendere il caffé con un amico e resta a un metro di distanza?», il barista si chiama Giovanni e ha 63 anni («compiuti l’altroieri», sorride orgoglioso); intorno a piazza Borsa ci sono decine di locali, tutti più o meno pieni, ogni cliente si tiene a strettissima distanza dalla persona con la quale è arrivato, altro che misure per evitare il contagio. Un gruppo di giovani, probabilmente universitari, ha formato un circoletto: sei persone che si parlano a voce bassa tenendo le teste incollate per non perdersi nemmeno un sussurro. Scoppia una risata e il circoletto si allarga, Giovanni sorride sornione: «Glielo andate a dire voi che devono stare a un metro di distanza?».

Per “costringere” le persone a stare lontane c’è chi si organizza in maniera empirica con una fantasia tutta napoletana, come ha fatto Raffaele Ambrosino, direttore del centro Medico Cmr di Melito: alternanza di sedie smontate in sala d’attesa, una c’è l’altra no, così gli avvicinamenti pericolosi e vietati dalle norme sono definitivamente impossibili.

A via Toledo la gente è la metà rispetto al solito, però c’è una bell’aria frizzante che sta portando in strada qualche altra persona. Due ragazze dai tratti orientali si muovono allegre davanti alle vetrine, indossano mascherine che coprono quasi completamente i loro volti e in tanti si voltano a guardarle. Un uomo coi capelli bianchi non resiste, si avvicina alle ragazze e allarga le braccia come a dire “perché fate cosi?”. A lui sembrano quasi un’offesa quelle mascherine per le strade della sua città. Le ragazze orientali rispondono con un sorriso che s’intuisce anche dietro le mascherine, l’uomo è soddisfatto da quei sorrisi, torna indietro, riprende sottobraccio l’amico e gli parla muso a muso, dieci centimetri, altro che un metro di distanza: «Ce lo andiamo a prendere un bel caffe?».
 

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