L'editoriale del direttore De Core: Napoli, le lacrime e lo sdegno non possono più bastare

Serve un esercito di educatori tra scuole, palestre, centri culturali

Parco Verde
Parco Verde
di Francesco de Core
Sabato 2 Settembre 2023, 23:45 - Ultimo agg. 4 Settembre, 07:09
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Un titolo di giornale ha in sé una sua carica, una forza interiore. Declamatoria, persino provocatoria. Quello della prima pagina del Mattino di ieri esprime, con un ossimoro, una rabbia meditata. Da alcuni condivisa, pessimisticamente, fino a farsi grido di dolore in un disperato fuitevenne, valido ieri come oggi (e in questa direzione mi ha colpito un post, lucido e durissimo, dello scrittore Stefano Piedimonte); da altri rigettata, con sincero slancio di speranza, continuando con tenacia a cercare nell’inferno ciò che inferno non è. Non c’è resa, comunque, né tra i primi né tra gli altri. “Così Napoli uccide il futuro”, abbiamo titolato. Il suo futuro. Volendo considerare una parte per il tutto, simbolicamente, il futuro di Napoli – città di molteplici identità che troppo spesso si trasforma in Crono che divora le sue creature - sembra tramutarsi in un lugubre campo di ombre, lutti, sangue. 

Le bambine segnate dalle violenze del parco Verde di Caivano come i poveri Antonio Giglio (aprile 2013) e Fortuna Loffredo (giugno 2014), stuprati e ammazzati in un tempo dal quale la nostra consapevolezza e la nostra indignazione si sono affievolite, fino a farsi polverosa, se non cinica, rassegnazione; Giovanbattista Cutolo, per tutti Giogiò, musicista (suonava il corno, non faceva il pagliaccio sui social), una faccia degna di una vita da vivere con slancio e passione stroncata in una notte d’agosto, nella piazza che si affaccia sul municipio della città, luogo che dovrebbe laicamente essere sacro, ecco, Giogiò unito in un destino tragico a Francesco Pio Maimone, il giovane pizzaiolo ucciso senza neppure uno straccio di perché a Mergellina, anche lui in un tempo (marzo 2023) dal quale, oltre le scosse telluriche dalla consueta esecrazione, nulla pare essere mutato se non trascurabili sommovimenti, quando poi le parti in tragedia sembrano immutate, al centro come nella devastata periferia. 

 

Lo Stato, a Caivano, ci ha messo la faccia. In enorme, colpevole ritardo, ma lo ha fatto. Giudicheremo poi quel che realmente sarà in grado di portare a compimento. Ma qui non è solo una questione politica, di potere decisionale, di interventi da programmare e realizzare. Anche, sì: senza avere paura di ricostruire modelli virtuosi imponendoli sul e al territorio, di ampliare la platea del fronte educativo e delle organizzazioni sociali, di mettere in campo uomini e mezzi che diano dignità a una comunità violata e provino almeno a prosciugare la banalità del male che mette radici nella generazione degli adolescenti, con la complicità terribile, odiosa, di famiglie inette. Serve un esercito di educatori tra scuole, palestre, centri culturali. E serve un apparato repressivo che necessariamente vada impiegato per fare in modo – primo, fra tanti esempi – che la droga (peraltro utilizzata da tanti rampolli di danarose famiglie di professionisti, anche loro consumatori, dei cosiddetti rioni alti) e le armi non circolino più come merce venduta sugli scaffali di un supermercato.
Verrebbe da dire - se non fosse per noi del Mattino un titolo inviolabile, ormai consegnato alla storia, parafrasandolo: Facciamo presto. Non pensiamo che quelle storie non ci appartengano.

Non pensiamo che i nostri figli siano al sicuro da questo gorgo di abominio. Anche la mamma e il papà di Giogiò lo pensavano. Giogiò, un figlio di Napoli. 

Indigniamoci, sì, inginocchiamoci, ascoltiamo commossi le urla di chi ha avuto le carni straziate. Ma poi, evaporato il dolore dell’immediatezza, accolliamoci l’onere di un vero esame di coscienza, tutti, indistintamente. Nell’ordinarietà del quotidiano. Ciascuno si senta moralmente costretto ad andare oltre il suo ambito, oltre la sfera della propria responsabilità individuale. È questo il momento, non domani. Non so se Napoli nella sua interezza – riferendomi a una perimetrata (o meglio, ristretta) società civile, a una borghesia troppe volte pigra e indifferente, a una chiesa che dovrebbe essere invasiva e pervasiva, ai giovani, molti dei quali così brillanti eppure troppo spesso abbandonati dal teatrino della città solidale (?) e aperta (?), alla sua industria spettacolar-culturale che produce personaggi di finzione il cui impatto emulativo è obiettivamente sfuggito di mano - sia all’altezza del compito.

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So solo che passando come ogni giorno in piazza Municipio, quando non vedrò più i fiori bianchi per Giogiò ma frotte di turisti che sciamano in cerca di pizze e sfogliatelle, con i loro Rolex che fanno gola a giovanissimi e già spietati rapinatori, mi sentirò in colpa. Pronto a dare di più. A fare di più. A denunciare di più. Ho perso anche io un figlio, lo abbiamo perso tutti. È ora di dire basta. Le lacrime servono se ciascuno, a ogni livello, è capace di non rendere inutili morti assurde, violenze inconcepibili. Altrimenti restano lacrime di coccodrillo. Facciamone a meno, per sempre.

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