Saletta rossa: resistere con i libri e nuove idee

di ​Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 19 Marzo 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:49
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Le strade delle città italiane in questi anni si sono riempite di cibo e di cellulari. E questo per soddisfare le esigenze di un pubblico fatto di due categorie principali, gli italiani stessi innanzitutto e, poi, i nuovi turisti globali che mangiano qualsiasi cosa a qualunque ora del giorno. Sono due fenomeni possenti che hanno avuto e hanno la forza di plasmare il paesaggio delle nostre città, impossessandosi di spazi pubblici e privati e cambiandone in modo prepotente funzioni e destinazioni d’uso.

Solo nel 2022, secondo i dati del Global Digital Report, l’Italia ha perso, rispetto all’anno precedente, centomila cittadini, ma ha acquistato seicento quarantatremila cellulari in più. Ogni italiano ha in media 1,3 telefonini a testa. Che cosa ci facciano non è difficile da dire, se teniamo conto che più di quaranta milioni di nostri concittadini risultano iscritti a un social: quasi tre quarti della popolazione attualmente vivente nella Penisola. L’altro fenomeno sono, appunto, i turisti. La mobilità globale delle persone per tempo libero ha trasformato ormai le città italiane in un vero e proprio fattore di produzione. Strade, vicoli, palazzi storici, scorci paesaggistici valgono in quanto permettono di godere dei frutti di una qualche rendita legata alla proprietà

Case e appartamenti, locali commerciali, persino marciapiedi sono messi al servizio dell’estrazione di valore da fiumane di persone che non hanno niente da fare. 
Una società dell’indolenza di massa che consuma suole di scarpe, compra merce per lo più di scarso valore e, per l’appunto, divora cibo in grandi quantità. Succede ovunque e gli effetti si vedono sull’organizzazione della vita quotidiana, dall’intasamento delle strade alla requisizione di locali per abitazione, sottratti alla locazione dei cittadini e reimmessi sul mercato esclusivamente per affitti brevi ad altissima redditività.

Pare che sia una cosa buona e tutti vogliono conquistare sempre più turisti. In questo quadro tendono a scomparire tutti quei luoghi per mezzo dei quali la vita associata di quartiere soddisfa le esigenze fondamentali della sua riproduzione quotidiana. E tra questi, naturalmente, anche le librerie, ma più in generale tutto il commercio cosiddetto di prossimità. 

In una città che sempre di più è concepita come spazio di flusso, i negozi sono essenzialmente espositori di oggetti pronti al consumo, che si prendono e si pagano senza interrompere il movimento lineare, o al più sono progettati come alvei in cui una parte della folla sciamante defluisce per essere presto restituita alla traiettoria principale. Lo schema di riferimento è l’organizzazione degli spazi commerciali di un aeroporto. Superato il gate, il tragitto che porta dai varchi all’imbarco è una successione di proposte di acquisto.
Stando così le cose, si apre uno spazio per il rimpianto e la nostalgia, anch’essa in qualche modo commerciabile, e così la notizia di una libreria che riapre diventa un segnale di speranza.

Non tutto è perduto, allora, si dice, se tra una friggitoria e un buco dove si possono comprare magneti per il frigorifero e cover per il cellulare, si vendono pure libri. 

I libri sono per lo più un mito di chi li possiede e quasi mai le persone hanno imparato a leggere per leggere i libri. Né, a ben vedere, nelle librerie di cui parliamo si trovano libri nel vero senso della parola. Si trova, sì, molta carta stampata, ma i libri in senso proprio sono pochi. Si trovano contenuti culturali in forma di libro, ma sempre meno libri. Ricettari, foto, fumetti e caricatori per cellulari, molta elettronica, strumenti musicali, film, dischi e compact. Ma nonostante questo, il mito del libro resiste. E così vendere dei libri sembra essere più morale che vendere bubble tea. 

Nel remake di un celebre film con James Stewart, C’è posta per te, Meg Ryan vendeva libri per bambini e, intanto, resisteva al nuovo capitalismo che invadeva il suo mondo protetto e infantile. Invano. Alla fine il capitale trionfa e sulla base di un principio molto semplice: la grande libreria offre efficienza e comfort. C’è il caffè e le poltrone sono comode e accoglienti. I clienti si muovono tra gli scaffali, sfogliano i loro autori preferiti, si fanno incuriosire dall’allestimento delle novità.
Questo modello è in crisi? Chissà. Intanto a Napoli si annunciano un megastore della Mondadori e uno Starbucks. L’uno di fianco all’altro nella Galleria Umberto, che forse acquisterà un aspetto meno tetro di quello che attualmente presenta allo sperduto passeggiatore. Contemporaneamente si annuncia la riapertura della Saletta rossa, la prova generale ieri, che fu una brillante iniziativa di Mario Guida degli anni che furono. Presentava libri, per l’appunto. Ma quei libri li avevano scritti Jack Kerouac e Allen Ginsberg, Fernanda Pivano, che accompagnava tutti i poeti della Beat Generation, Alberto Moravia, Umberto Eco. Guida era anche un editore e nel suo catalogo si trovano Tzvetan Todorov, Hyden White, Troeltsch e Leopold von Ranke, tanto per dire a caso qualche nome di quelli che contano. La nuova Saletta rossa per il momento cita se stessa e basta. Si annuncia anche una Factory dell’arte, se capisco bene annessa alla Saletta, che però una grande cosa proprio non pare.

Insomma, per farla breve, vogliamo resistere davvero? Ma a cosa, per l’esattezza?
 

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