Flick: «Questa Autonomia è come una secessione, decida il Parlamento»

Il presidente emerito della Consulta: «Con i Dpcm l’aula ridotta a notaio. La bozza Calderoli? Lo Stato non deve cedere a tutte le richieste delle Regioni».

Flick: «Questa Autonomia è come una secessione, decida il Parlamento»
Flick: «Questa Autonomia è come una secessione, decida il Parlamento»
di Francesco Bechis
Martedì 20 Dicembre 2022, 00:08
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Avanti, senza il Parlamento, ridotto «al ruolo di notaio». Che dovrà limitarsi a ratificare le intese tra governo e Regioni, piacciano o meno. Scritta così, come nella bozza della riforma Calderoli, l’autonomia rischia di leggersi «secessione», dice il presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick.

L’autonomia a suon di Dpcm. Si può fare?
«No, non è possibile.

Serve una legge, che a differenza del Dpcm, un atto amministrativo, è emanazione del Parlamento e gode di presidi come il sindacato della Corte Costituzionale».

Qual è il rischio?
«Ricorrere ai Dpcm è un problema. Perché mancherebbero le garanzie tipiche dello strumento legislativo e si lascerebbe in una posizione del tutto marginale il Parlamento. L’aula sarebbe ridotta al ruolo di notaio, con un parere di conformità neppure vincolante sulla “contrattazione” tra governo e singole Regioni».

Perché il Dpcm non è sufficiente?
«Confondere tra leggi di competenza del Parlamento e provvedimenti amministrativi è un errore da matita rossa. Confondere i principi fondamentali della Repubblica e della Costituzione invece è da matita blu».

Eppure nella riforma Calderoli in manovra i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) sono definiti tramite Dpcm, con buona pace del Parlamento.
«Mi sembra illusorio pensare di definire le prestazioni e i servizi minimi essenziali per il Paese con strumenti amministrativi, senza previa indicazione legislativa. Per di più, non è previsto alcun onere per lo Stato: troppo bello».

È un problema? 
«Come si può attuare il principio costituzionale della pari dignità sociale fra tutti i cittadini italiani senza stanziare le risorse per ridurre le disuguaglianze esistenti? Una riforma seria dovrebbe aiutare le Regioni che sono a un livello inferiore a raggiungere le altre. L’articolo 116 della Carta non è un premio a chi amministra meglio».

Facciamo un passo indietro. Ha qualche dubbio sulla riforma in sé?
«Io parto da una premessa. Si può concedere nuove forme di autonomia alle Regioni, come prevede la Costituzione, ma senza che questo si risolva in una diversità di cittadinanza. Altrimenti rischiamo che la riforma finisca per favorire la secessione delle Regioni ricche». 

Da dove si può partire per scrivere la riforma?
«A me sembra da interventi di elevazione delle Regioni che si trovano in condizioni di difficoltà, non da nuovi privilegi a chi già oggi è al di sopra della media. Partirei dalla definizione dei Lep, parametro della pari dignità sociale descritta negli articoli 3 e 117 della Costituzione».

C’è il pericolo di spaccare in due il Paese?
«Le disuguaglianze già in essere tra Nord e Sud non possono sfuggire. Dalle aspettative di vita alle conseguenze derivanti dalla “regionalizzazione” del Sistema sanitario: penso alla decrescita demografica nel Meridione. Senza contare scuola, lavoro, trasporti».

Molte di queste materie sono contenute nella bozza Calderoli. Lo Stato è obbligato a delegare?
«Lo Stato non è costretto a soddisfare tutte le richieste à la carte delle Regioni. Deve valutare l’attribuzione di autonomia in relazione al “bene comune regionale” e alle effettive peculiarità ed esigenze delle singole Regioni, la delega non può diventare la regola, né è dovuta. Il principio autonomista deve convivere con i principi di solidarietà e di unità della Repubblica previsti in Costituzione».

Ricorrere alla spesa storica delle Regioni per definire i Lep può funzionare?
«La spesa storica è falsata. Non corrisponde a un’equa distribuzione delle risorse ma è il risultato di capacità politiche e persuasione, stratificate nel tempo, nell’ottenere finanziamenti. Rischia di cristallizzare stanziamenti del passato, casuali o anche iniqui». 

Al Nord c’è chi dice: le tasse pagate dalla Regione devono restare sul territorio.
«E le Regioni che non hanno la stessa capacità fiscale? Con questa logica si dà vita a venti Stati regionali. Una secessione di fatto. Senza contare che l’attribuzione di nuove competenze non può essere considerata un premio per chi ha di più e un castigo per chi ha anche qualche colpa nell’avere di meno».

Commissari, cabine di regia, una roadmap a tappe forzate. L’autonomia viene trattata come un’emergenza. È così?
«Il sistema regionale è stato istituito nel 1970, la riforma del Titolo V ha più di venti anni. Dov’è l’urgenza?». 

Dunque il metodo-Covid non si può applicare alla riforma autonomista?
«L’emergenza non può mai essere il primo gradino per arrivare alla normalità. Durante la pandemia è nata un’amministrazione commissariale per rispondere a esigenze contingenti, abbiamo affidato ai generali la campagna vaccinale. Ora questa dinamica deve rientrare».

È un rischio svuotare lo Stato delle sue competenze?
«Svuotare lo Stato non è consentito dalla Costituzione. Quando furono concepite le Regioni ci si illuse che il nuovo sistema avrebbe favorito il progressivo alleggerimento della funzione statale, non è andata così». 

Si parla molto di autonomia, molto meno dei poteri speciali che Roma capitale attende da anni come tutte le capitali europee. 
«Il problema di Roma dovrà essere affrontato. Abbiamo una sola Capitale che richiede interventi particolari. In questi anni sono proliferate, forse oltre il dovuto, le Città metropolitane, quasi esistessero “vicecapitali” da Nord a Sud. Un’altra eccezione di cui sarà opportuno occuparsi, non prima di aver affrontato il problema in termini generali».

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