Antonella Di Veroli uccisa e chiusa nell’armadio, nuova pista 30 anni dopo l'omicidio

Nel Dna recuperato su alcuni reperti potrebbe celarsi l’identità dell’assassino

Antonella Di Veroli uccisa e chiusa nell’armadio, nuova pista 30 anni dopo l'omicidio
di Federica Pozzi
Martedì 9 Aprile 2024, 22:56 - Ultimo agg. 10 Aprile, 22:34
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Sono passati 30 anni da quel 10 aprile del 1994 in cui Antonella Di Veroli venne uccisa nel suo appartamento di via Domenico Oliva, nel quartiere Talenti, per poi essere ritrovata due giorni dopo, chiusa nell’armadio. Due le persone indagate - di cui uno finito anche a processo. Ma, alla fine, il brutale omicidio è rimasto irrisolto. Un fatto che però non ha dissuaso i parenti, soprattutto la sorella Carla, a continuare negli anni a cercare la verità.

Così ieri il suo legale, Giulio Vasaturo, ha presentato alla procura di Roma l’istanza di riapertura delle indagini.

Tra reperti non analizzati, testimonianze dei vicini e le tecnologie che negli anni hanno fatto passi da giganti, se il processo venisse riaperto, ora ci sarebbe una possibilità concreta di dare un nome a chi quella domenica sera di 30 anni fa ha ucciso Antonella, all’epoca 47enne. 

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IL RITROVAMENTO 
Preoccupati dalla sua assenza ingiustificata sul luogo di lavoro, la sorella e il marito di Antonella erano andati il giorno dopo l’omicidio a cercarla in casa. La luce dell’ingresso era accesa ma non c’era nulla di anomalo. È stato solo il giorno seguente, grazie all’insistenza di Umberto Nardinocchi, ex amante della donna, che voleva verificare se all’interno dell’armadio mancasse qualcosa, che il corpo è stato ritrovato. Le ante erano state sigillate, all’interno il cadavere della 47enne, ancora con il pigiama indosso, in posizione rannicchiata sul fianco sinistro, semicoperta da alcuni cuscini insanguinati e con la testa avvolta in una busta di cellophane annodata al collo. La vittima aveva un foro in testa e un’ogiva incastrata tra i capelli. Sulla trapunta del letto una custodia di plastica con all’interno uno Swatch, il lenzuolo e il coprimaterasso erano insanguinati, uno dei cuscini aveva fori provocati dai proiettili. Sul pavimento però era stato ritrovato solo un bossolo di piccolo carico. Gli accertamenti tenici sul corpo della donna dimostrarono che la morte era stata provocata da asfissia meccanica causata dalla busta di plastica che aveva in testa, i proiettili infatti l’avevano solo stordita. 


Nessuna effrazione: la donna, che è stata descritta come diffidente nei confronti degli estranei, aveva aperto la porta al suo assassino. Proprio questa diffidenza di Antonella nei confronti di chi non conosceva, aveva indirizzato gli inquirenti verso le sue due relazioni precedenti: il commercialista Umberto Nardinocchi e il fotografo Vittorio Biffani, entrambi sposati. Le indagini nei confronti del primo si erano concluse con un’archiviazione, mentre Biffani aveva affrontato il processo di fronte alla Corte d’Assise di Roma, con l’accusa di omicidio premeditato, porto illegale di arma da fuoco e occultamento di cadavere e, in concorso con la moglie, anche dei reati di tentata estorsione e soppressione di conversazioni telefoniche. Nel giugno 1997 saranno entrambi condannati a 8 mesi solo per l’ultimo dei reati. 


I REPERTI 
I reperti isolati all’epoca facevano però già pensare alla responsabilità di un terzo soggetto. Tra questi, un’impronta papillare sull’anta destra dell’armadio e un’altra rilevata sulla custodia dell’orologio Swatch. Reperti che la difesa chiede vengano nuovamente comparati con i riscontri dattiloscopici presenti nelle banche dati delle forze di polizia. Non solo, un’impronta di scarpa era stata trovata su una delle ante dell’armadio - che è però andata persa -, oltre ad altri frammenti papillari all’epoca considerati non utili ai confronti. Altra incognita le formazioni pilifere, analizzate solo dal punto di vista morfologico e comunque non appartenenti alla vittima o agli indagati. Ora su queste si potrebbero svolgere analisi del Dna per isolare il profilo genetico dell’assassino. 
Inoltre, alcune persone che abitavano o frequentavano assiduamente il palazzo, avevano parlato della presenza, quella sera, prima dell’arrivo a casa della vittima, di un uomo sui 50 anni, di media statura, robusto, con i baffi, che fumava nervosamente e attendeva qualcuno con una busta di plastica in mano. Non solo, nei mesi precedenti la donna aveva ricevuto in casa anche un medium e fattucchiere pregiudicato, escludendo quindi l’assoluta certezza che mai potesse aprire la porta a uno sconosciuto, o quasi. 
 

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