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Morto Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi: il questore di Trapani vieta i funerali

61 anni compiuti ad aprile, è stato stroncato dal tumore al colon con metastasi al fegato

L'arresto di Matteo Messina Denaro
L'arresto di Matteo Messina Denaro
di Gigi Di Fiore
Articolo riservato agli abbonati
Martedì 26 Settembre 2023, 07:00 - Ultimo agg. : 19:02
5 Minuti di Lettura

Era l'ultimo del gruppo dei Corleonesi, testimone e coprotagonista della stagione mafiosa più sanguinosa del secolo scorso. Gli anni delle stragi, i tentativi, tra il 1992 e il 1993, di ricattare con le bombe le istituzioni per l'incalzare delle condanne definitive a decine di capi mafiosi e gli inasprimenti del carcere duro. Matteo Messina Denaro come Totò Riina, Bernardo Provenzano, i fratelli Brusca. Il boss è morto nella notte tra domenica e lunedì nell'ospedale de l'Aquila dove era ricoverato, in una stanza blindata, da agosto. Aveva 61 anni compiuti ad aprile, con una carriera criminale ultratrentennale interrotta solo il 16 gennaio scorso, quando fu arrestato dinanzi la clinica palermitana dove cercava di curare il suo implacabile tumore al colon con metastasi al fegato. Lo chiamavano «u siccu», per la sua magrezza, ma anche «Diabolik» per l'ascesa criminale. Quarto di sei figli, con un padre, don Ciccio, affiliato a Cosa nostra e capo del mandamento di Castelvetrano in provincia di Trapani. 

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Messina Denaro, l'arresto show dopo 30 anni fuori dalla clinica a Palermo
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Il testamento: a chi vanno i suoi beni e l'attacco alla Chiesa 

Studi terminati con il diploma di terza media anche se iscritto al terzo anno all'istituto tecnico commerciale, a 22 anni Matteo Messina Denaro poteva fare la bella vita con le disponibilità economiche illegali di famiglia. «Il mio errore più grande è stato smettere di studiare» scrisse su un pizzino ad Antonio Vaccarino, già sindaco di Castelvetrano. I Ray-Ban scuri, diventati suo accessorio caratteristico, erano diventati un vezzo per coprire un accenno di strabismo sviluppato con la miopia. Gli inizi, i primi «lavoretti» illegali sulla scia del padre. Era stato fattore e contadino don Ciccio, nelle tenute agricole della famiglia D'Alì Staiti, proprietari della redditizia Banca sicula di Trapani e delle saline della stessa provincia. Fu fattore il figlio Matteo, nella stessa tenuta. Frequentazioni e padrini di rango mafioso, come Antonino Marotta, che era stato «uomo d'onore» nella banda di Salvatore Giuliano. Le prima tracce giudiziarie risalgono al 1989, con una prima denuncia per associazione mafiosa. Due anni dopo uccise Nicola Consales, dipendente di un albergo di Selinunte che con lui condivideva un'amante. Commise l'errore di lamentarsi con lei di «quei mafiosetti sempre tra i piedi, che presto terrò lontani» e fu ucciso. Un mafioso in ascesa allora, pronto a prendere presto il posto del padre nel mandamento di Castelvetrano. Disse di lui il pentito Baldassare Di Maggio: «È un giovane rampante, il padre gli ha dato delega piena a guidare il mandamento». 

Seppe scegliere gli alleati giusti: i sanguinari Corleonesi. Ne conquistò la considerazione, con l'ingresso nei gruppi di fuoco in azione anche in trasferta a Roma. A poco meno di 30 anni, era considerato un figlioccio di Riina che chiese al gruppo di Messina Denaro di studiare gli spostamenti di Maurizio Costanzo e Giovanni Falcone. E mostrò di cosa fosse capace nella faida di Alcamo, ammazzando il capocosca Vincenzo Milazzo e la sua compagna Antonella Bonomo. La strangolò, senza curarsi che fosse incinta di tre mesi. «Matteo Messina Denaro ha in mano parte dell'archivio di Riina dal gennaio 1993» dichiarò il pentito Nino Giuffrè. Un capo deciso, scaltro, che aveva messo le mani sui segreti di Cosa nostra. E fu proprio Messina Denaro a proseguire la strategia stragista dopo l'arresto di Riina. Lui con Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Graviano che decisero gli attentati a Firenze, Milano e Roma nel 1993. «Fu lui a scegliere gli obiettivi degli Uffizi a Firenze e San Giovanni in Laterano a Roma» dichiarò Brusca, diventato collaboratore di giustizia. Ma l'episodio più spietato fu il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo per costringere il padre a ritrattare le dichiarazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il ragazzino fu strangolato e sciolto nell'acido.

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Collezionista di opere d'arte, seduttore che piaceva alle donne, almeno 5 le compagne note, curato nel vestire, è riuscito a rimanere latitante per una trentina d'anni, con connivenze e amnesie a Castelvetrano. Nella sua vita privata, una figlia certa: Lorenza Alagna, 27 anni, mamma di un bambino di due anni. Visse con la nonna paterna, poi andò via con la mamma Francesca. «Lorenza è degenerata, le altre di cui so sono create onestamente» scrisse di lei il padre. Ma poi, anni dopo, le scrisse: «Stai lontana da cose che non conosci». Solo poco prima di morire Matteo Messina Denaro ha riconosciuto con atto notarile quella figlia, che ora porta il cognome del padre mai frequentato. Molte donne e, forse, altre due figlie e un figlio che «vivono fuori». Ha confidato ai medici. Tante identità fasulle, coperto da compagne e sorelle. Con documenti falsi, riuscì a sottoporsi a cure oculistiche in Spagna. In Grecia andò in vacanza con il nome di Matteo Cracolici insieme con la compagna Maria Mesi. Imparentato con medici, in contatto con imprenditori e politici locali e nazionali, ha avuto molti appoggi nella sua lunga latitanza finanziata anche con il business del gioco d'azzardo a Malta e investimenti in Venezuela. Poi l'arresto. Interrogato dai magistrati ha negato di aver ucciso e sciolto nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, ammettendo: «Ne ho ordinato solo il sequestro». Alla sua morte, aveva collezionato sei condanne all'ergastolo. Ha scontato la condanna più implacabile, ucciso da un tumore senza scampo. Aveva chiesto, poco prima di perdere lucidità in clinica, dove la figlia, con la zia e la cugina, hanno assistito alle ultime sue ore: «Non rianimatemi se vado in coma». Lo hanno accontentato. Per Messina Denaro niente funerali: sarà il questore di Trapani a vietarli, come accade con tutti i boss mafiosi. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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