Terremoti Italia, intervista a Boris Behncke: «Troppa gente vicino ai vulcani attivi»

L'allarme del vulcanologo dell'Osservatorio Etneo dell'Istituto di Geofisica e Vulcanologia di Catania

Boris Behncke
Boris Behncke
di Mariagiovanna Capone
Mercoledì 20 Settembre 2023, 07:05 - Ultimo agg. 19:40
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Per tre giorni a Catania i vulcanologi europei discuteranno di «Sfide e prospettive future per attività coordinate», perché ragionare e collaborare insieme diminuisce fortemente il rischio di un effetto a cascata non previsto. Ne parliamo con Boris Behncke, vulcanologo dell'Osservatorio Etneo dell'Istituto di Geofisica e Vulcanologia di Catania.

Behncke, il progetto Aristotle nasce da una partnership tra enti europei che sono impegnati nelle scienze della terra e nel clima. Quanto è importante collaborare quando si parla di vulcani?
«È fondamentale. La vulcanologia è una scienza che è cresciuta proprio grazie alle collaborazioni internazionali, dove chi ne sapeva di più o aveva fatto scoperte particolari, condivideva il proprio lavoro. È un settore in cui si sommano le esperienze, penso a quando negli anni 80 imparavamo dagli scienziati inglesi e francesi che hanno introdotto la vulcanologia più moderna.

Noi l'abbiamo sviluppata e oggi siamo noi a insegnare qualcosa, come è accaduto ai colleghi spagnoli, totalmente impreparati all'eruzione di due anni fa del vulcano Cumbre Vieja a Las Palma, nelle Canarie».

In che modo?
«Non avevano esperienza di un'eruzione di quel tipo. Gli mancavano quindi le conoscenza dei più recenti sistemi di monitoraggio e sorveglianza. Così in questi due anni, come Ingv siamo andati da loro per insegnargli metodi e tecniche. È fondamentale aiutare colleghi con meno esperienza. Oggi a livello internazionale possiamo dire di aver fatto tesoro di quanto imparato noi stessi tanti anni fa, siamo all'avanguardia al punto da sentir definire l'Italia la culla della vulcanologia».

E si può fare ancora di più in questo campo di conoscenza?
«Certo. E lo stiamo facendo attraverso una collaborazione più intensa con le Università, con accordi di collaborazione che prevedono di addestrare gli studenti, perché c'è bisogno di un ringiovanimento, cosa che è più complessa in un ente come il nostro».

Quali sono le conoscenze che ci rendono la culla della vulcanologia?
«Tante, grazie alle esperienze dirette sul campo attraverso le eruzioni dell'Etna, in particolare. Per esempio, abbiamo ideato, costruito e installato strumenti che non esistevano e che si stanno rivelando importanti nel comprendere l'evoluzione di un vulcano. Come quello per misurare l'anidride solforosa: prima si doveva portare la strumentazione in cima con un elicottero, oggi abbiamo una rete di 10 strumenti in grado di misurare le emissioni gassose sottovento. È una novità che abbiamo creato noi. Oppure strumenti che si chiamano spring-middle installati a 3-4 metri di profondità per registrare le più minuscole variazioni di pressione in quell'ambiente che danno informazioni preziose sui cambiamenti di volume: quando aumenta la pressione il vulcano sta caricando a eruttare, quando erutta si ha una depressurizzazione. Si tratta di strumenti di una precisione sorprendente che neanche ci aspettavamo, perché intercettano cambiamenti minimi».

E abbiamo esportato queste conoscenze?
«Certamente, il metodo di misurare i gas lo usano ora i colleghi in Islanda e in El Salvador. Ma anche nostri metodi per misurare depositi di attività esplosiva ora li usano alle Canarie. Però abbiamo esportato anche altre conoscenze».

Cioè?
«La collaborazione tra Ingv e Protezione civile. Nel 2016 sono venuti qui scienziati e operatori del servizio civile degli Stati Uniti per imparare la nostra partnership e il protocollo, che hanno copiato e ora usano».

In Italia abbiamo tante aree vulcaniche attive o quiescenti ma c'è un'area dove mancano informazioni dettagliate e, le poche esistenti, non sono così rassicuranti: il Marsili.
«Ha ragione, circa 20 anni fa il Marsili è venuto fuori per via di un progetto per ottenere fondi e ora si parla solo della sua pericolosità, sebbene ci siano state ricostruzioni fantasiose che ipotizzano catastrofi. Ma da quel poco che abbiamo studiato di questo vulcano, sappiamo che è vivo ma non così attivo. Se eruttasse, noteremo solo delle bollicine in superficie ma siccome non si può escludere un caso di un'eruzione estrema, a mio avviso vale la pena pensare a una sorveglianza continua. Prima di tutto per studiarlo a fondo, poi per monitorarlo. Certo, capisco che lo sforzo economico e tecnico sarebbe notevole, ma un sistema di sorveglianza sottomarino c'è già da oltre 15 anni al largo dell'Oregon, con un vulcano ben più profondo del Marsili. In Grecia è stato avanzato un progetto per il Kolumbo, vicino Santorini. E allora perché non farlo anche noi? Le competenze non ci mancano».

Lei studia l'area eoliana e l'Etna. Ma qualcosa sui Campi Flegrei può dircela?
«Dal punto di vista scientifico ci sono i bravissimi colleghi dell'Osservatorio Vesuviano. Ma posso dire qualcosa sulla comunicazione che vale tanto per i Campi Flegrei quanto per tutte le aree vulcaniche attive dove non c'è più memoria di un evento eruttivo. Ai Campi Flegrei e a Vulcano, per esempio, non ce l'hanno da tempo e così hanno costruito tanto. È fondamentale la divulgazione di informazioni corrette, diffondere la conoscenza prepara al rischio chi vive in questi territori. A partire dai bambini nelle scuole, ma non con lezioni che avvengono grazie a un docente attento, bensì in maniera sistematica in tutte le classi e scuole possibili con nostri ricercatori. Educare ai vulcani, ai terremoti ma anche ai rischi idrogeologici, alluvionali C'è troppo distacco tra noi e il territorio, siamo ospiti di un pianeta in continua evoluzione». 

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