Giornaliste nella trappola degli abusi online: il 30% si autocensura

Giornaliste nella trappola degli abusi online: il 30% si autocensura
di Rita Annunziata
Sabato 8 Maggio 2021, 22:18
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Misoginia, razzismo, omofobia e fanatismo religioso. Ma non solo. Una valanga di abusi e minacce online mina oggi la libertà di espressione e le prospettive professionali di una moltitudine di giornaliste, sempre più bersaglio di campagne d’odio volte a «sminuire e umiliare» oltre a indurre «paura e silenzio». E che mettono a rischio anche la fiducia dell’opinione pubblica nei confronti dei media.

A denunciarlo un recente discussion paper dell’Unesco, The chilling: global trends in online violence against women journalists, che ha coinvolto un campione di oltre 900 professionisti del settore originari di 125 paesi, analizzato 15 casi di studio nazionali e più di 2,5 milioni di post social.

Un set di informazioni senza precedenti, che rivela come gli attacchi online contro le reporter siano «inestricabilmente legati alla disinformazione e alla politica populista», osserva l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura.

Quasi tre quarti delle intervistate, infatti, dichiara di aver subito abusi sul web. Minacce di violenza fisica (nel 25% dei casi), ma anche di morte e violenza sessuale (nel 18%). E che, in alcuni casi, si sono trasformate in aggressioni “offline” (20%). Un contesto che ha indotto il 30% delle giornaliste ad autocensurarsi sui social media e il 20% a ritirarsi completamente dalle interazioni online. Per non dimenticare un 4% che dichiara di aver perso il lavoro a causa di particolari preoccupazioni per gli attacchi e le violenze offline e un 2% che ha deciso volontariamente di abbandonare del tutto il giornalismo. Il 26%, invece, riporta conseguenze sulla propria salute mentale, oltre a un 12% che afferma di aver cercato aiuto medico o psicologico a seguito delle violenze.

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«Gli abusi online contro le giornaliste sono concepiti per sminuire, umiliare e indurre vergogna, paura e silenzio; intendono screditarle professionalmente, minando la fiducia nei fatti», spiegano i ricercatori. «Ciò equivale a un attacco alla democrazia deliberativa e alla libertà dei media, e non può essere normalizzato o tollerato come un aspetto inevitabile del discorso online». Sotto la lente, tra i casi di studio analizzati, la storia di Maria Ressa, co-fondatrice del sito giornalistico Rappler nelle Filippine e recentemente insignita del premio annuale dell’Unesco per la libertà di stampa. I suoi rapporti, si legge nello studio, l’hanno resa un bersaglio delle campagne di discriminazione online, al punto da ricevere fino a 90 messaggi d’odio all’ora solo su Facebook. Nella ragnatela degli abusi anche la pluripremiata Carol Cadwalladr, giornalista britannica per The Observer e lo stesso The Guardian, per la quale i ricercatori hanno rilevato più di 10mila casi di evidenti abusi solo su Twitter, di cui circa la metà intrecciati a un linguaggio sessista e misogino.

In questo contesto, secondo l’Unesco, le piattaforme di social media rappresentano infatti la piazza principale della violenza online contro le donne e «finora non sono riuscite a rispondere rapidamente o efficacemente alla crisi. Al centro di questo fallimento c’è il tentativo di utilizzare la libertà di parola come uno scudo contro l’assunzione di responsabilità per il contenuto dei loro siti», spiega l’organizzazione, sottolineando come spesso debbano essere le stesse reporter a impugnare la penna virtuale e a segnalare, bloccare, silenziare ed eliminare i propri aggressori. «Le piattaforme social mancano di soluzioni sensibili alle problematiche di genere e, nonostante dispongano delle armi per fare di più, non godono di un’unità di risposta rapida», conclude l’Unesco. Una minaccia, dunque, alla libertà di “indagare”. E che rischia di disperdere la voce, femminile, dell’informazione.

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