Il Libano sull'orlo del baratro
Anche prima del disastro del porto

Il Libano sull'orlo del baratro Anche prima del disastro del porto
di Erminia Voccia
Mercoledì 5 Agosto 2020, 22:19
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«Piove sempre sul bagnato». Questa espressione potrebbe forse aiutare a capire meglio di altre la complicata situazione interna del Libano, sconvolto dalla doppia esplosione che il 4 agosto ha portato via un pezzo della capitale Beirut, devastato il porto e sventrato palazzi. I morti, almeno 135 secondo le ultime stime, e i 5000 feriti si aggiungono a una realtà economica, politica e sociale che molti analisti descrivono così: a un passo dal baratro. La crisi economica che interessa il paese è considerata la peggiore sfida alla stabilità dalla fine della guerra civile.

La moneta libanese ha perso più della metà del suo valore rispetto al dollaro; il tasso di disoccupazione è schizzato al 35%, l’inflazione al 109% e si stima che quasi il 45% della popolazione viva sotto la soglia minima di povertà. Ad aprile, secondo le Nazioni Unite, il Governo libanese considerava la maggioranza della popolazione, quasi il 75%, bisognosa di aiuti. Il disastro del porto è un danno enorme per l'economia città perché il silos che si staglia sul porto conteneva il grano necessario a sfamare l’intera popolazione locale. Privato delle infrastrutture portuali, l'intero flusso di beni andrà riorganizzato. Un'esigenza fondamentale per un paese come il Libano che importa quasi tutto dall'estero.
 
In questo quadro, l'epidemia da Covid-19 e le misure di contenimento avevano assestato un duro colpo. Con gli oltre 5 mila casi riscontrati finora e un incremento del 72% di nuovi casi registrato il primo agosto rispetto al giorno prima, il Libano è ben lontano dall'aver sconfitto il virus. Negli ospedali è complesso garantire le cure ai malati a causa delle continue interruzioni nella fornitura di energia elettrica. Perché in Libano mancano i servizi, anche i più essenziali. Un cittadino libanese su tre ha perso il lavoro. La crisi economica ha portato al default finanziario. A marzo il premier Hassan Diab ha affermato che il Libano non sarebbe stato in grado di pagare una rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi sul suo vastissimo debito pubblico. E proprio a marzo, appena prima della pandemia, il debito pubblico era pari a circa 77 miliardi di euro, vale a dire al 150 per cento del prodotto interno lordo; il deficit corrispondeva al 9 per cento del PIL. Le fasce più deboli della popolazione sono le prime a pagare il prezzo della crisi, tra questi ci sono i rifugiati siriani. Un cittadino su sei è un rifugiato, un dato che fa così del Libano il paese che accoglie più rifugiati in relazione alla popolazione. 
 
Le condizioni economiche del Libano avevano spinto la popolazione a protestare contro la corruzione dilagante tra i rappresentanti delle istituzioni e il settarismo della politica, colpevole di aver protetto per decenni interessi privati a danno di quelli generali. Le manifestazioni iniziate ad ottobre sono andate avanti per mesi e anche lo scorso 7 giugno si sono verificati violenti scontri. La situazione politica, estremamente fragile dopo le crisi di governo che hanno interessato il gabinetto del premier Saad Hariri, sembrava aver raggiunto un certo equilibrio con il premier Hassan Diab, sostenuto soprattutto da Hezbollah. La particolarità delle proteste in Libano era quella di aver mostrato un senso di unità tra la popolazione e tra le diverse confessioni religiose, tra le diverse comunità e gli strati della società. Per la prima volta, le persone dei diversi gruppi religiosi si erano schierate insieme a difesa degli interessi di tutti, come se ad unirli ci fosse stato il senso di appartenenza a una sola nazione. Un senso di unità che si percepiva come la vera occasione del Libano. Tuttavia, secondo Michael Brandt che scrive per Modern Diplomacy, durante le proteste del 6 giugno alcuni manifestanti avrebbero nominato direttamente il partito milizia sciita chiedendo il disarmo di Hezbollah. Questo avrebbe creato una divisione tra chi stava dimostrando perché lo scopo originario delle proteste era ottenere le dimissioni della classe politica mostrandosi al di sopra di ogni divisione settaria, in base al motto: "tutti vuol dire tutti".

Il sistema che avrebbe dovuto garantire la stabilità e la rappresentatività tra le comunità etnico-confessionali del Libano ha prodotto un grave deficit di bilancio, corruzione delle istituzioni e fragilità, mancando di realizzare le riforme necessarie al paese. «La questione dell'accertamento delle responsabilità produrrà altro caos perché non c'è fiducia tra i cittadini verso le autorità», ha tuonato il corrispondente di DW Razan Salman.
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